Emmanuel - The broken diary - Fourth Season

Certi bravi ragazzi Special Edition (Frédéric, un'affascinante canaglia)

January 16, 2024 Antonia Del Monaco
Certi bravi ragazzi Special Edition (Frédéric, un'affascinante canaglia)
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Emmanuel - The broken diary - Fourth Season
Certi bravi ragazzi Special Edition (Frédéric, un'affascinante canaglia)
Jan 16, 2024
Antonia Del Monaco

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Stefano Romano e Erika Piroscia reinterpretano per noi una scena della prima stagione del podcast.

Nella vita di Antonia irrompe improvvisamente Frédéric Valentino, affascinante giovane ingegnere con qualche turba psichica.

Nell'episodio n. 1.8 ("Frédéric Valentino") il giovane aveva esposto il suo progetto di "mettersi alla prova" con Antonia, sostanzialmente stuprandola. Ora lo vediamo mettere in atto il suo piano.

Per Antonia inizia un periodo di profondissima crisi interiore, che coinvolgerà, purtroppo, anche Emmanuel: la donna sarà costretta a scoprire le zone buie della sua personalità.

Nell'episodio si possono ascoltare cover e brani delle seguenti tracce:

"Smooth criminal" di Michael Jackson; "Du hast" dei Rammstein; "Requiem" di Mozart.

...

Stefano Romano and Erika Piroscia reinterpret for us a scene from the first season of the podcast.

Frédéric Valentino suddenly bursts into Antonia's life, a charming young engineer with some mental problems. In episode no. 1.8 ("Frédéric Valentino") the young man had explained his plan to "prove himself" with Antonia, essentially by raping her. Now we see him put his plan into action.

A period of profound internal crisis begins for Antonia, which will unfortunately also involve Emmanuel: the woman will be forced to discover the dark areas of her personality.

In the episode you can listen to covers and songs of the following tracks: Michael Jackson's "Smooth Criminal"; "Du hast" by Rammstein; Mozart's "Requiem".

Show Notes Transcript

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Stefano Romano e Erika Piroscia reinterpretano per noi una scena della prima stagione del podcast.

Nella vita di Antonia irrompe improvvisamente Frédéric Valentino, affascinante giovane ingegnere con qualche turba psichica.

Nell'episodio n. 1.8 ("Frédéric Valentino") il giovane aveva esposto il suo progetto di "mettersi alla prova" con Antonia, sostanzialmente stuprandola. Ora lo vediamo mettere in atto il suo piano.

Per Antonia inizia un periodo di profondissima crisi interiore, che coinvolgerà, purtroppo, anche Emmanuel: la donna sarà costretta a scoprire le zone buie della sua personalità.

Nell'episodio si possono ascoltare cover e brani delle seguenti tracce:

"Smooth criminal" di Michael Jackson; "Du hast" dei Rammstein; "Requiem" di Mozart.

...

Stefano Romano and Erika Piroscia reinterpret for us a scene from the first season of the podcast.

Frédéric Valentino suddenly bursts into Antonia's life, a charming young engineer with some mental problems. In episode no. 1.8 ("Frédéric Valentino") the young man had explained his plan to "prove himself" with Antonia, essentially by raping her. Now we see him put his plan into action.

A period of profound internal crisis begins for Antonia, which will unfortunately also involve Emmanuel: the woman will be forced to discover the dark areas of her personality.

In the episode you can listen to covers and songs of the following tracks: Michael Jackson's "Smooth Criminal"; "Du hast" by Rammstein; Mozart's "Requiem".

Avevo promesso di descriverle il mio esperimento nel più sintetico dei modi, ma, come lei m'insegna, la sintesi è nemica della precisione. Mi scuserà perciò se di tanto in tanto non potrò fare a meno di scendere nei particolari: si sa, il diavolo è nei dettagli. 

Procedo al resoconto. Se non le dispiace userò il tempo presente, a mio parere il più adatto a conferire evidenza alle descrizioni.

È una brutta serata di giugno. Giugno è un mese fra i più belli, ma questo no: fa schifo. C’è un’aria scura di temporale e si sta alzando il vento mentre usciamo insieme dal cancello di villa Kellermann. La ragazza corre verso la sua Uno grigia, io m’incammino verso il mio Carrera nero, parcheggiato nella stradina laterale. Sottolineo il Carrera: solo i profani lo chiamano la Porsche Carrera. Prevengo un'obiezione banale: lo so che automobile è un sostantivo femminile, ma in origine non lo era. Le cito Marinetti: veemente Dio d’una razza d’acciaio, un automobile ruggente è più bello della Vittoria di Samotracia eccetera. Del resto ci sarà un motivo se il Carrera ha raggiunto quotazioni stellari tra gli appassionati: stiamo parlando del re della strada, un oggetto di culto, il vertice di una leggenda automobilistica. Le sue linee hanno un fascino estetico sublime, con quei cerchi da diciotto pollici perfettamente a filo dei passaruota, la coda larghissima e pulita senza fronzoli aerodinamici. L’auto della perfezione assoluta. Perciò non può essere femmina. 

Sono uscito subito dopo di lei verso le sette, un'ora in cui normalmente gioco a bridge al circolo, per essere sicuro che siamo soli. Mi avvicino a lei sul marciapiede deserto, studiando l’andatura.

Oggi è vestita insolitamente bene, con un abito low cost di buon taglio, corpino nero attillato, alta fascia in vita e gonna a ruota azzurro polvere, scarpe nere con tacco medio sottile, scelta vincente perché il tacco dodici è volgare, il tutto un po’ anni cinquanta. 

La raggiungo, non le dò il tempo di sorprendersi:

- Ti va di fare due chiacchiere?

Sobbalza un po' impaurita, ma subito, voltandosi e riconoscendomi, sorride:

- Oh, sei tu. Non ne hai avuto abbastanza di chiacchiere per stasera? Non abbiamo fatto che dire sciocchezze per tutto il tempo.

Cazzate. Si dice cazzate. Ma lei è assistente di filologia classica e le piace usare termini obsoleti.

- Non quel genere di chiacchiere - rispondo.

Mi fissa improvvisamente negli occhi, ma il mio sguardo non ha nulla di allarmante.

- Lo farei volentieri, ma sono un po’ stanca e vorrei tornare a casa.

- Peccato. Avevo qualcosa di interessante da dirti, ma vabbè, sarà per un'altra volta. Ciao bella.

Mi avvio verso la macchina.

La curiosità è femmina. Poi c’è il Carrera, e ci sono io. Conto fino a dieci: uno, due, tre…

- Dovrei avvisare mia madre che mi aspetta per cena, ma ho dimenticato il cellulare.

Le mostro il mio sorridendo:

- Sali, dai.

Apro la portiera. Prende posto accanto a me e accavalla le gambe, lasciando intravedere le calze scure con la riga dietro. 

- Ti va di mangiare qualcosa?

Sulle prime avevo pensato di invitarla al Gatto Nero, il mio ristorante preferito (niente cerebralità e improbabili filosofie culinarie: atmosfere e riti ripetitivi, piatti semplici ma perfetti latori di sensazioni primarie), ma ho scartato subito l'ipotesi: come primo invito sarebbe risultato sospetto e non potevo certo dirle che sarebbe stato l'unico. Scelgo un ristorante sul Po, zona corso Moncalieri, un locale interessante e di discreto livello. La faccio bere e ridere senza accennare alla cosa che devo dirle. Sembra rilassata, spensierata, perfino bella a tratti. Racconta aneddoti noiosi  sulla sua carriera da morta di fame e mi chiede di me, delle mie amicizie, della mia famiglia; le rispondo con frasi fatte, luoghi comuni, banalità di circostanza. Di tanto in tanto le accendo una sigaretta e le verso da bere (io sono astemio e non fumo).

Ad un certo punto si avvicina a noi un piccolo straccione con in mano delle rose mezze sfiorite che sembrano raccolte dall'immondizia.

- Un bambino zingaro - sussurra lei - Poverino, che brutte rose.

Accenno ad un sorriso, ma mi riesce male come al solito, per cui rinuncio. Opto per un tono severo:

- Senti, sei una donna intelligente, cerca di evitare i luoghi comuni.

Mi guarda stranita e non fa domande, ma è evidente che non ha capito. Forse è la sua estrazione sociale che le impedisce di comprendere l'ovvio, mentre a me è tutto ben chiaro: ho sempre annoverato fra i più allarmanti sintomi di decadenza il fatto di considerare normali le aggressioni degli zingari al ristorante, dei lavavetri ai semafori, degli extracomunitari all'uscita dei negozi, dei posteggiatori abusivi nei parcheggi a pagamento eccetera. A proposito, mi giuri una cosa: se un giorno dovesse vedermi ridotto a fare una cosa del genere, mi sopprima. Non sto scherzando: tengo una pistola nel cassetto sotto le camicie, incarichi chi le pare, non bado a spese. 

Lei sa come la penso sull'istinto di autoconservazione: non c'è bisogno di scomodare Kalergi, basta il raziocinio di cui è dotato ogni essere umano. Quando mi vedo aggredito a tradimento da uno di quei disadattati, il mio primo istinto è quello di mollargli un cazzotto in faccia: domino l'impulso solo per evitare grane con la giustizia; inoltre, data la mia stazza fisica, di solito mi è sufficiente uno sguardo. Quello, poi, era solo un bambino: infatti, appena poso gli occhi su di lui, il piccolo zingaro fa dietrofront ed esce dal locale. 

Lei lo guarda uscire e mi dice, un po' risentita:

- Perché lo hai guardato così? L'hai spaventato. Ha già i suoi problemi con quelle rose, povero bambino: non riuscirà a venderne neanche una.

- Non è una buona ragione per rompere le scatole al prossimo.

- Ma che ne sai? Di sicuro l'avranno costretto. Magari non è nemmeno figlio di zingari, magari lo hanno rapito...

- Senti, cambiamo argomento, ti va?

Sconcertata dal mio tono perentorio, mi asseconda.

Di lì a poco il ragazzino rientra. Tiene basso il suo mazzo di rose e fissa il pavimento, senza trovare il coraggio di avvicinarsi ai tavoli. Io lo ignoro, ma lei, evidentemente attratta dagli squallori esistenziali, non riesce a levargli gli occhi di dosso.

- Lo hanno picchiato! Guarda, ha un livido sulla fronte. Qualcuno fuori lo ha picchiato e lo ha costretto a rientrare.

Guardo il moccioso, guardo lei. È normale, rientra nell’ordine delle cose: non capisco di cosa si stupisca. Comunque ho deciso di assecondarla. Chiamo il bambino con un gesto della mano, ma mi volta le spalle come se avesse paura di prendersele anche da me. Quel piccolo coglione non vuole saperne di avvicinarsi; sospiro, mi alzo, lo raggiungo, gli prendo una mano, gli metto sul palmo un centone e prendo tutto il mazzo. Rimane immobile per un attimo a fissarmi come se non riuscisse a capire, guarda il centone e guarda me, poi chiude le dita sporche e scappa fuori senza neppure ringraziare. 

Sfilo dal mazzo la rosa meno malandata, restituendo le altre all'immondizia da cui provengono, la poso davanti a lei e le dico:

- Tutto a posto. Ora possiamo parlare d'altro?

Non risponde niente: mi guarda con gli occhi sgranati e l'espressione di chi sta perdendo l'orientamento. 

Finita la cena usciamo dal ristorante. Non sopporto più la puzza, i nostri vestiti si sono impregnati degli odori grevi del locale. Le propongo una passeggiata disintossicante sul lungofiume, ben sapendo che non accetterà, perché sta incominciando a piovere. Infatti mi dice:

- Purtroppo non ho portato l’ombrello, non mi aspettavo che piovesse.

A questo punto lei si aspetta un'obiezione, un tentativo di contrastarla; invece la assecondo:

- Hai ragione, ti riaccompagno alla macchina.

Questa mossa spiazzante proprio non se l'aspettava, ma non posso rivendicarne il merito, trattandosi di una citazione: Fischer-Spassky 1972, undicesima partita, il cavallo che torna alla casa di partenza. 

Tutto ciò destabilizza l'avversario e pone il giocatore in una posizione di superiorità: il messaggio implicito in questo caso è "non mi sei piaciuta abbastanza da portarti a letto", il che, per qualsiasi donna, risulta profondamente umiliante. Infatti non dice una sola parola per tutto il viaggio di ritorno.

La riporto davanti alla villa di Michele e le tendo sportivamente la mano:

- Grazie della bella serata.

La vedo cercare febbrilmente un appiglio:

- D'accordo, sarà per un'altra volta.

- Per cosa?

- Per quella cosa che volevi dirmi, non ricordi?

- Ah sì, scusa. Stavo appunto per parlartene quando si è messo a piovere.

- Abito troppo lontano, se no potevi venire a prendere un caffè da me.

Mente spudoratamente. So dove vive, non è che sia lontano: è che si vergogna di abitare in una casa popolare in via Vanchiglia. Indico la collina dietro la Gran Madre:

- Io abito a due passi.

- Magnifica zona. 

- Sì, non c'è male. Andiamo?

Sorride timidamente:

- Le ragazze perbene non salgono a casa degli sconosciuti a quest'ora di notte.

- Ma io non sono uno sconosciuto.

E soprattutto, tu non sei una ragazza perbene.

Detto fatto, la porto a casa mia. Abito in un attico al quinto piano di un edificio d'epoca in via Villa della Regina, ma di proposito evito l'ascensore. La precedo per lo scalone antico, accarezzando il mancorrente di radica della ringhiera in ferro battuto: la radica al tatto è liscia e calda come seta, una sensazione magnifica, non trova? Anche per questo mi piace usare le scale. I palazzi antichi, a Torino, hanno i gradini bassi, comodi da salire, quasi sempre in pietra serena, un'arenaria di colore grigio a granulometria variabile che preferisco di gran lunga al marmo. 

Apro il portoncino blindato e le indico il divano di pelle nera:

- Accomodati.

Si guarda intorno trasognata:

- Hai una casa bellissima.

- Ho un bravo arredatore: questo misto di mobili antichi e moderni me l'ha suggerito lui. Del resto lo pago una fortuna. I tappeti persiani sono autentici, i quadri anche. Casorati, Menzio, Follini, Delleani. Ho anche un Jessie Boswell. Non mi piacciono affatto, ma sembra che nel mio ambiente sia obbligatorio averli.

La lascio gironzolare con aria estasiata fra i miei dipinti, vado in cucina e torno con una bottiglia di Dom Perignon: non proprio un’annata memorabile, nulla a che vedere con 1982, 1988 o 1990, ma pur sempre un dignitosissimo Oenothèque Rosé, con tutta probabilità il miglior champagne in rosa del mondo.

- Grazie, - si schermisce lei - non voglio più bere.

- Ma io sì.

Poso due calici sul tavolino di ebano e mi siedo sul divano. Si siede anche lei, allunga la mano verso il calice e lo porta alle labbra.

- Allora, - dice, tentando di fare la spigliata e accavallando le gambe - cos'è che mi volevi dire?

Comincio a inventare una storia assurda su amici comuni, quel genere di stupidaggini che fanno sempre presa sull'animo femminile. Lei ride, io la assecondo con circospezione e continuo a riempire il suo calice. La chiacchierata va avanti per circa un quarto d'ora e lei si rilassa completamente. Mi rendo conto che potrebbe essere più complicato del previsto, perché di tanto in tanto mi deconcentro un po’: ma, come le dicevo, in questi mesi ho maturato un discreto autocontrollo.

All’improvviso sento che è arrivato il momento: allungo le mani e le afferro i polsi. Si divincola come una serpe, ma io le stringo più forte i polsi e la trascino sul divano sotto di me. La copro con il mio corpo e le faccio sentire il mio sesso sul suo. Mi guarda immobile, senza capire.

- Cosa fai? - mi chiede, come se non fosse chiaro.

- Di' la verità, non vedevi l'ora di farti sbattere da me. È il tuo giorno fortunato, ti sto offrendo un alibi di ferro.

Affondo i pollici nei suoi polsi.

- Lasciami, mi fai male.

- Sta' zitta.

- Cosa vuoi da me?

- Fotterti, sorellina: che altro?

Le allargo le cosce e strappo il reggicalze nero. Finalmente la smette di divincolarsi.

Il seguito è molto prevedibile.

Alla fine mi alzo dal divano e vado subito a lavarmi. Mentre mi infilo la camicia nei pantaloni e mi rifaccio il nodo alla cravatta - Windsor doppio, il nodo dello stile british per eccellenza: triangolare, simmetrico, funziona molto bene con colletti alla francese o bene aperti – mi sento soddisfatto. Come supponevo, quella donna è frigida, ma le piace la violenza, o forse le piaccio io, non lo so; l'essenziale è che la prova è riuscita alla perfezione: io ho mantenuto il controllo della situazione dal primo all'ultimo istante, mentre lei lo ha perso del tutto, sembrava pazza o isterica, gridava ancora. 

Disprezzo chi non sa prendere le distanze dalla carnalità: una persona degna di questo nome non può lasciarsi dominare totalmente dalla materia. Del resto, "la donna ha il cuore sotto la suola delle scarpe e gli occhi che non hanno mai visto le stelle", come disse qualcuno.

Quando rientro nel salone provo una nausea salutare e non vedo l'ora che si tolga dai piedi. È ancora lì, immobile e distrutta come il relitto di un naufragio. Le volto le spalle sperando che il messaggio sia chiaro. La sento scivolare giù dal divano, rivestirsi, raccogliere le sue cose e infilarsi il cappotto. Mi volto, la precedo fino alla porta e la blocco contro lo stipite. È quasi brutta, struccata e disfatta, con le occhiaie profondamente segnate. Le sollevo il mento con due dita e le infilo nella scollatura la rosa ormai appassita:

- Questa storia non avrà un seguito. Perciò, nell'interesse di entrambi, noi due questa sera non ci siamo visti. È chiaro?

Non risponde. Apro la porta e la lascio andare.

Mi accorgo all'improvviso che è ora di dare un senso a quella serata: perciò mi distendo sul divano, accendo il mio Marantz 1200B con giradischi automatico tangenziale e mi preparo ad ascoltare la mia musica preferita.

Ho scoperto di recente che l’atmosfera sonora, livida e desolata, è attribuibile in gran parte alla particolarissima strumentazione, dove gli unici legni presenti sono corni di bassetto e fagotti; ne deriva un timbro opaco e spettrale, che intreccia polifonie opponendosi ai pizzicati degli archi. Qui si raggiunge la perfezione estetica.

Sto parlando, ovviamente, del Requiem di Mozart.