Emmanuel - The broken diary - Quinta e ultima stagione - Fifth and Final Season

3.8. Attraverso la palude (Emmanuel conosce la madre di Antonia e trova il gatto Gino)

Antonia Del Monaco Season 3 Episode 7

Emmanuel va a trovare Antonia, reduce da un'operazione, e conosce sua madre.
Intanto, strada facendo, incontra il gatto Gino e lo prende con sé.
Mentre attende il risveglio di Antonia, il ragazzo scambia quattro chiacchiere con la signora Silvia e familiarizza con lei.
Gli interpreti sono Paolo Malgioglio e Elisa Gandolfi. 
La colonna sonora comprende cover di "Umbrella" di Rihanna (cantata nel finale da Emmanuel stesso) e "La mia storia fra le dita" di Gianluca Grignani. 
... 
Emmanuel goes to visit Antonia, who has just returned from an operation, and meets her mother.
Meanwhile, along the way, he meets the cat Gino and takes him with him.
While waiting for Antonia to wake up, the boy has a chat with Mrs. Silvia and gets to know her.
The interpreters are Paolo Malgioglio and Elisa Gandolfi.
The soundtrack includes covers of "Umbrella" by Rihanna (sung in the finale by Emmanuel himself) and "La mia storia fra le dita" by Gianluca Grignani.

Sta piovendo a dirotto. Mi fermo con un sorriso di circostanza riparando sotto l’ombrello Irene, che tutti i giorni prende l'autobus con me in via Po. È quasi buio, il consiglio di classe si è protratto in modo esasperante; sono irrequieto e nervoso, non vedo l'ora di rimanere solo. Guardo di lato per non incontrare i suoi occhi. Lei mi fissa con un'espressione da cerbiatta addolorata:

- Non vieni a casa? È tardissimo.

- No, ho un paio di commissioni da fare.

- A quest’ora?

- A quest’ora.

- Hai avvertito i tuoi?

- Ovvio.

Comincia ad essere seccante. Il fatto che ci sia stata fra noi una love story di un paio di settimane, i cui tempi si coniugano ormai al passato remoto, non la autorizza a sottopormi a questo terzo grado. Arriva l'autobus ed io la tiro leggermente indietro per ripararla dagli spruzzi delle pozzanghere, con una fredda e cortese cavalleria che la ferisce.

- Grazie, - dice acida - potevo fare da me.

È patetico quando una donna che ti muore dietro ti tratta come se fossi tu a volere qualcosa da lei. La guardo salire fra i cappotti bagnati, in un confuso apri e chiudi di ombrelli sgocciolanti. Dal finestrino mi fa un cenno di saluto: lo ricambio distrattamente. Finalmente se ne va. Irene è una brava ragazza, oltre che una ragazza carina, ma non potrei mai amare una come lei. In questo momento ho altro cui pensare, ma dedico lo stesso qualche istante ad una riflessione estemporanea: non si può scegliere chi amare, si sa, il meccanismo scatta da solo; il punto è che il mio meccanismo non scatta con le brave ragazze. Se fossi onesto con me stesso ne dovrei dedurre qualcosa di non troppo positivo sul mio conto, per esempio che non sono un bravo ragazzo, ma non ho né tempo né voglia di essere onesto adesso: ho fretta di fare altro. Peraltro, mentre cammino sul marciapiede, non posso fare a meno di riflettere sul fatto che i bravi ragazzi e le brave ragazze non sono interessanti perché non sono veri: sono soltanto la ripetizione di un cliché sociale; non si vede quindi per quale motivo dovrebbero essere amati. Penso che si possa amare solo chi si trova nel primo o nel terzo stadio di Enten-Eller, quello centrale semplicemente non ha senso.

Mi allontano a passi rapidi in un pulviscolo di pioggia che il vento mi sbatte in faccia a raffiche improvvise, svolto al primo isolato e arrivo alla fermata del tram. Arriva scampanellando: con due balzi lo raggiungo, ci salto sopra.

Nella ressa della carrozza semibuia c'è un’aria palustre, satura di respiro animale; sento che quell'atmosfera malsana sembra fatta apposta per soddisfare una qualche esigenza del mio essere, ma non ho voglia di capire quale: i pensieri mi colano giù per il collo in gocce tie-pide. Forse questo andare liscio e sferragliante, questo lasciarsi trasportare nella sonnolenza cullante di una vecchia carrozza al riparo dal diluvio, senza responsabilità. Sì, forse questo.

All’improvviso intravedo dal finestrino appannato la mia fermata: chiedo permesso, m'intrufolo tra un cappotto e l'altro e scendo; l’umidità tagliente mi morde il collo; sento il tram allontanarsi col suo lamento elettrico. Mentre cammino sul marciapiede guardo la pioggia cadere pesante e lo smog squagliarsi sotto i miei passi in una melma iridata di idrocarburi. Procedo come in sogno. Torino con le luci giallastre i portici il fango la pioggia gli odori sintetici i passanti le automobili i fari accesi il crepuscolo tutto mezzi toni, Torino più che un luogo fisico è il sogno confuso di un malato, una zona preconscia della mente.

Mentre avanzo in uno stretto vicolo sento un flebile lamento provenire da un angolo in basso a sinistra. Abbasso gli occhi e vedo, rannicchiato nella finestra di un seminterrato, un gattino di un grigio uniforme, una specie di certosino, fradicio e tremante. Lo chiamo: esce dal suo precario riparo e fa qualche passo verso di me sulle zampine malferme. Mi chino e lo accarezzo sulla testa; solleva la magra coda e si alza sulle punte dei piedi facendo una specie di balletto. D'impulso lo afferro e me lo infilo in tasca. Dopo pochi minuti, avvolto dal benessere di quel rifugio caldo e asciutto, si addormenta ronfando.

Il portone dello stabile ordinario e un po' malandato è socchiuso. Chiudo l’ombrello scrollandolo leggermente, entro, salgo le scale di marmo bagnato impregnate di odore di soffritto, leggo le targhette; sono un po' in difficoltà perché non conosco il cognome di sua madre, ma so che si chiama Silvia, e perciò la trovo quasi subito. Suono il campanello: dallo spioncino vedo un occhio che mi osserva. Mi apre una signora dal viso simpatico, con gli occhi e i capelli grigi: indossa una veste da casa a fiori con un grembiule bianco annodato in vita. Cerco invano di cogliere una somiglianza con Antonia, ma non ve n'è traccia: la signora Silvia non assomiglia a sua figlia più di quanto mio fratello assomigli a me. È di corporatura esile e minuta, almeno dieci centimetri più piccola di Antonia; dev’essere stata graziosa da ragazza, probabilmente bionda e con i capelli ricci, ma di una bellezza fragile e romantica, un po’ da ragazza dell’Ottocento, che non ha nulla a che vedere con l’eleganza intrigante e androgina del fisico di Antonia.

Sfodero la mia buona educazione, in linea con il mio nuovo aspetto da bravo ragazzo.

- Buonasera signora: sono Emmanuel, il fratello di Michele. Mi scuso del mancato preavviso, ma uscivo da scuola e ho pensato di fare un salto a salutare Antonia, se non disturbo. 

Mi guarda con un po' di stupore, ma quasi subito il suo volto è illuminato da un radioso sorriso; si asciuga le mani nel grembiule e stringe la mia.

- Che bella sorpresa! Entra.

Rassicurato da quell’accoglienza cordiale, appoggio l’ombrello contro la parete fuori della porta, mi pulisco le scarpe sullo zerbino ed entro.

- Vieni, posa i libri. Ma sei tutto bagnato: levati quel giaccone, che lo metto ad asciugare.

- Grazie.

- Sta dormendo: ora la sveglio.

- No, per favore, la lasci riposare. Aspetterò in anticamera.

- In anticamera? E perché? Seguimi in cucina.

Attraversiamo la piccola anticamera. Nella penombra della cucina le pentole esalano vapori di brodo di pollo. Un odore del genere l'ho sentito qualche volta addosso ad Antonia, misto alla fragranza amara del dopobarba che usa come profumo: provo una leggera vertigine. L’olfatto è il più evocativo dei sensi: produce sensazioni paragonabili solo a quelle dell’udito quando si ascolta musica, non mediate razionalmente, e perciò colpisce sempre a tradimento.

Mamma Silvia si rimette ai fornelli, mentre io mi siedo al tavolo.

- Posso offrirti qualcosa? Un caffè, un tè?

- Solo un bicchier d’acqua, grazie.

- Non vuoi fermarti a mangiare un boccone con noi?

- Grazie signora, lo farei volentieri, ma i miei mi aspettano per cena.

Osservo l’andirivieni della signora dal frigorifero al fornello ed ascolto il suo chiacchiericcio rassicurante, mettiti vicino al termosifone se hai freddo, siamo a maggio e ci sono quindici gradi, con quel che si spende di riscaldamento poi, piove sempre è buio tutto il giorno quanti soldi in fumo eccetera eccetera. Intanto ha messo su l’acqua per il tè che ho appena rifiutato e mi sta preparando una tazza. Non posso fare a meno di sorridere: mi ha letto nel pensiero, in effetti sento il bisogno di qualcosa di caldo.

- Latte o limone? - mi chiede affettando un limone. Non ritengo necessario rispondere. 

All'improvviso balzo in piedi ed esclamo:

- Latte! In un piattino, per favore.

Rimane interdetta con il coltello a mezz'aria.

- In un piattino?

Esco precipitosamente dalla cucina e rientro poco dopo con il gattino in mano; mi ero completamente dimenticato di lui: per fortuna è rimasto tranquillo a dormire nella mia tasca. 

- L'ho trovato per la strada - mi giustifico - Era tutto bagnato, piangeva, non potevo lasciarlo lì.

- Hai fatto benissimo. Che bello che è!

Lo accarezza sorridendo e gli gratta la testolina, poi gli offre il latte dopo averlo intiepidito sul fornello, e mentre il gattino lo lecca con un piccolo rumore ritmato gli prepara una cuccia di fortuna in un cestino imbottito con qualche straccio morbido e pulito. Sì, è una brava donna mamma Silvia.

- Come sta Antonia? - mi decido a chiedere, con il tono più indifferente di cui sono capace.

- Meglio, grazie a Dio.

Comincia ad affettare delle cipolle sul tavolo.

- Scusami se continua a lavorare, ma se non preparo la cena adesso non mangia all'ora giusta. Tirati un po’ indietro, se no ti lacrimano gli occhi. Mia figlia ti è molto affezionata, sai? È orgogliosa di te, a lei non piace insegnare ma per te fa un’eccezione, dice che sei un ragazzo molto intelligente e capisci le cose al volo. Ma sei tutto rosso in faccia, hai caldo?

- Sì, un po’.

- Mi dispiace, ma non posso aprire la finestra, se no quando viene a mangiare prende freddo. Fra un quarto d'ora deve prendere la medicina, ci pensi tu a svegliarla?

- Certo. Intanto posso darle una mano? Così inganno l'attesa.

- Grazie, sei davvero gentile. Puoi sbucciare queste, se vuoi.

Mi indica delle patate già lavate e ammucchiate su un vassoio. Mi rimbocco le maniche, prendo un coltello e comincio il mio lavoro, appoggiando quelle sbucciate su un canovaccio pulito che la signora ha disteso sul tavolo e mettendo le bucce in un contenitore che mi ha appoggiato di fianco.

- Tuo fratello è stato qui ieri, sai?

- Davvero?

- È un gran bravo ragazzo, sarebbe piaciuto tanto a mio marito. Giovanni diceva sempre che Antonia non era una ragazza da marito, ma Michele gli avrebbe fatto cambiare idea.

Poso la mia prima patata e sorrido alla seconda.

- Perché diceva che non era una ragazza da marito?

- Be’ sai, non fa molto testo quel che diceva lui in questo caso. Lui avrebbe voluto un figlio maschio, e siccome Antonia era una bambina diversa dalle altre, la trattava come un maschio e si aspettava da lei che facesse carriera come un maschio. 

Annuisco e la lascio proseguire.

- Anche il nome che le ha dato è strano: io volevo chiamarla Bianca come mia nonna, ma lui ha insistito per darle un nome poco femminile, Antonia.

- A me piace moltissimo.

Mi guarda per un attimo. Devo stare attento a non insospettirla: già la mia presenza qui è sospetta. Cambio argomento con disinvolta indifferenza.

- Le patate come le taglio?

- A bastoncino, se ci riesci; se no va bene anche a pezzi più grossi.

- Vada per il bastoncino. 

Mentre eseguo il mio compito riporto il discorso sull'argomento che mi interessa; per depistarla faccio una battuta stupida, nella speranza che mi consideri un po' tonto.

- Una bambina diversa dalle altre in che senso? A me è sempre sembrata una femmina.

- Nel senso che non faceva la riverenza, non giocava con le bambole, non voleva fare danza classica... Era sempre in cortile a giocare a guardie e ladri con i maschi. Era molto brava a scuola: anche per questo mio marito avrebbe voluto che facesse carriera.

Questa volta non lascio cadere l’osservazione.

- La sta facendo - obietto.

- La carriera universitaria, vuoi dire? Quella non è una carriera. Li pagano pochissimo, uno stipendio da fame, e poi mia figlia non ha la grinta per farsi avanti. I concorsi son tutti truccati, uno invecchia che è ancora lì ad aspettare un posto fisso. Se vuoi sfondare in quell'ambiente devi sgomitare, fare la leccapiedi di qualche professore o andarci a letto, e soprattutto prendere la tessera di un partito.

- Sì, l'ho sentito dire.

- Di sogni e illusioni non si campa: per fortuna tuo fratello è un ragazzo con la testa sul collo.

- Già, per fortuna.

Mi alzo e verso le patate tagliate a bastoncino nella padella che la signora ha messo sul fuoco. Poi mi risiedo al tavolo e commento impassibile: 

- Le patate sono a posto. Posso passare ai fagiolini, se crede. 

- Grazie, sei un tesoro.

Mi rimetto al lavoro: i miei trascorsi in cucina con Antonia mi hanno insegnato diverse cose, fra cui il trucco per pulire quella verdura noiosa. Intanto riprendo la conversazione:

- Ora che mi ci fa pensare, non ho mai sentito Antonia parlare di suo padre. 

- Non ne parla mai. La sua morte è stata un trauma terribile per lei.

- Scusi, non volevo essere indelicato.

Mi stupisco di quanto io sia portato per il ruolo del bravo ragazzo: sto azzeccando tutto, dall'aspetto fisico all'atteggiamento al registro linguistico. Tutto questo è inquietante, è come aprire una finestra sull’ignoto: non vorrei che in me albergasse a tradimento il secondo stadio di Kierkegaard.

- Ma no, anzi, - dice lei - mi fa piacere parlare di mio marito. 

Sorride mentre affetta le melanzane.

- Era un pezzo d’uomo il mio Giovanni, alto, bruno e atletico. Da giovane un gran bel ragazzo, le mie amiche me lo invidiavano. Arrivava da un paesino del Salento e si era trasferito in Piemonte per lavorare come operaio specializzato. Io invece sono della Val di Susa: ero venuta a Torino perché non volevo farmi mantenere dai miei e in valle non si trovava lavoro. Ci siamo conosciuti alla fabbrica di Mirafiori e ci siamo piaciuti subito: io ero carina allora, non bella come lui ma carina. Eravamo giovanissimi, ma ci siamo sposati dopo un mese. Avevamo pochi soldi: per il fidanzamento lui mi regalò un anello con un diamante così piccolo che non si vedeva quasi, ma lo conservo come una cosa sacra. Lui era un meridionale all'antica, ci teneva a mantenere la famiglia da solo e ha voluto che io smettessi di lavorare: l’ho accontentato volentieri, perché quel lavoro non mi dava nessuna soddisfazione e invece mi è sempre piaciuto moltissimo occuparmi della casa. Eravamo poveri ma felici. Poi è nata Antonia e le cose si sono un po’ complicate: lui all'inizio non era contento.

Cerco di dissimulare il mio disappunto.

- Perché? - chiedo con indifferenza - Non era una bella bambina?

- Certo che era bella, ma lui voleva un maschio, te l'ho detto. Per due giorni non è neppure andato a vederla all'ospedale Sant'Anna. Il terzo giorno si è deciso ad andare al nido e ha visto tre papà intorno alla culla di una bambina: dicevano che era la più bella di tutte. Solo allora Giovanni s'è accorto che era Antonia. S'è fatto avanti tutto impettito dicendo "È mia figlia": da allora è sempre stato un grande amore.

- Andavano d'accordo?

- Per niente. Avevano lo stesso carattere, perciò litigavano sempre. Quando lui si arrabbiava perdeva il lume degli occhi, ma le sue sfuriate sbollivano dopo cinque minuti; Antonia invece gli teneva il muso. È sempre stata così fin da piccola: orgogliosa e testarda. Andava a dormire senza neppure augurargli la buona notte. Poi però, quando soffriva d’insonnia, entrava di nascosto nel lettone grande e si metteva a dormire tra me e lui.

- Quanti anni aveva Antonia quando…

Mi interrompo subito, temendo di commettere una gaffe. Forse dovrei dire "quando suo marito è mancato": si dice così di solito. La signora però capisce al volo.

- Più o meno la tua età.

Sospira, preme con un piede il pedale della pattumiera per alzare il coperchio e ci butta dentro le bucce delle patate.

- Ho creduto che impazzisse, sai? - prosegue - Suo padre era tutto per lei. 

- Antonia le è molto affezionata - obietto con tono garbato. 

- Sì, non dico che a me non voglia bene, ma con lui c’era un rapporto molto più stretto. E lei non sapeva fingere con suo padre, non era capace di mentire. Così, quando ha saputo che aveva una malattia incurabile, per tirare avanti si è autoconvinta che sarebbe guarito. Lui aveva già perso metà del suo peso e camminava a fatica, ma lei faceva finta di non accorgersi di niente. Due mesi prima che morisse gli ha rinfacciato che non l'aveva portata al mare; quel pover’uomo c’è rimasto male, e allora lei gli ha detto pazienza papà, mi ci porti l’anno prossimo. Poi… poi s'è messa a fare cose assurde.

- Assurde in che senso?

- Cose che non aveva mai fatto. Era sempre stata una ragazza seria. Usciva con tre o quattro ragazzi per volta e lo diceva in faccia a suo padre, lo costringeva a litigare come ai vecchi tempi. 

Fa una pausa significativa. In questo vuoto sento passare tutto il dolore di Antonia, che per empatia trasmetto a me stesso scottandomi un dito mentre butto i fagiolini nell'acqua bollente.

- La notte in cui è morto - riprende la signora con tono mesto - è scappata dall'ospedale ed è rimasta in giro fino all'alba con cinque gradi sotto zero. Quando è tornata a casa non ha detto una parola per giorni. Da allora non ha più rimesso piede in una chiesa. 

Solleva il coperchio e guarda nella pentola:

- Il minestrone è pronto.

- Ha un ottimo profumo.

Sorride.

- Sì, credo che sia buono.

- Vado a svegliarla?

- Grazie. Dille che si deve alzare: non va bene che resti troppo a letto, l'ha detto anche il dottore che deve camminare.