Emmanuel - The broken diary - Quinta e ultima stagione - Fifth and Final Season

3.10. Gli amori del Templari - Parte I (Emmanuel gioca la partita più importante della sua vita)

Antonia Del Monaco Season 3 Episode 9

Ci avviciniamo alla fine del diario di Emmanuel, che si interromperà fra poco: questi sono gli ultimi capitoli scritti da lui, i più importanti.
Emmanuel è riuscito a strappare ad Antonia la promessa di trascorrere tre giorni sola con lui. Emozionato e felice, la porta con sé in Toscana in un memorabile viaggio che avrà delle conseguenze imprevedibili e fondamentali per entrambi. 
Gli interpreti sono Paolo Malgioglio ed Elisa Gandolfi. 
La colonna sonora è composta da cover e brani strumentali dei Daft Punk ("Veridis Quo" e "Get Lucky") e di Lana Del Rey ("High by the Beach" e "Gods and Monsters" in versione bardcore). 
... 
We are approaching the end of Emmanuel's diary, which will be interrupted shortly: these are the last chapters written by him, the most important.
Emmanuel managed to extract from Antonia the promise to spend three days alone with him. Excited and happy, he takes her with him to Tuscany on a memorable journey that will have unpredictable and fundamental consequences for both of them.
The interpreters are Paolo Malgioglio and Elisa Gandolfi.
The soundtrack is composed of covers and instrumental songs by Daft Punk ("Veridis Quo" and "Get Lucky") and Lana Del Rey ("High by the Beach" and "Gods and Monsters" in a bardcore version). 


Gli amori dei Templari

 

Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria.

 

Anche una persona come me, con un’evidente tendenza all'autodistruzione, non può non arretrare con orrore di fronte al ricordo della felicità sfiorata con un dito e subito irrimediabilmente perduta.

Di recente lo psicologo ha tentato di indurmi a ridimensionare la gravità della perdita usando il solito trucchetto di sminuire l’entità del bene perduto. Ma io non sono una mente debole, dottore: il tuo lavaggio del cervello non ha funzionato, non sei riuscito neppure per un attimo a farmi credere che in quei tre giorni io non abbia vissuto una condizione di perfetta beatitudine. 

Chi perde una cosa del genere ha finito di vivere: al massimo sopravvive, e solo perché lo pretendono gli altri. Ma finché dura la sua esistenza terrena, passando per quella strada, guardando quel paesaggio, ascoltando quella canzone, sentirà una tremenda botta al cuore e misurerà in un attimo la distanza incolmabile che lo separa dalla vita. Non serve sapere a posteriori che era tutto un autoinganno: questa consapevolezza aggiunge veleno al veleno, ma non cambia la percezione della perdita. Tutt’al più posso evitare di pensarci per non farmi inutilmente del male, ma se rievoco quei momenti, l’evidenza delle mie sensazioni è ancora così devastante che sarebbe ridicolo tentare di convincermi del contrario.

Il problema non era l'illusione: il problema è che l'illusione è finita. Se solo potessi ricreare quell'inganno, sceglierei di vivere nella finzione e nell'autoinganno per tutto il resto della mia vita. In questa menzogna patologica c'è una verità più profonda di qualsiasi verità dei cosiddetti sani. Riflettici, ti sto dando lo spunto per un nuovo articolo sulle tue riviste specialistiche, quelle che sfoglio distrattamente mentre attendo il mio turno in sala d’aspetto.

Eccomi qui, pronto per eseguire il mio compito quasi quotidiano, far rivivere i ricordi del mio breve passato e fissarli su questo mezzo freddo che è la memoria di un computer; quanto era meglio il mio vecchio diario: il rapporto era molto più segreto e intimo, c’era l’odore dell’inchiostro, il fruscio della carta, il contatto seducente con la copertina di pelle… Devo essere stato un amanuense in un’altra vita, mi piacciono troppo questi strumenti di scrittura arcaici. 

Come dicevo, dottore, sono pronto. Ma questa volta non credo di potercela fare: getto la spugna in anticipo.

Se uno non è un grande scrittore, è meglio che lasci perdere il tentativo di descrivere la felicità: la sua maldestra traduzione in termini narrativi riduce tutto a una serie di batticuori, tenerezze, sospiri, sguardi, sorrisi, con esiti per lo più all'altezza dei messaggi nei cioccolatini. Essere felici è uno stato di perfetta pienezza, e siccome la perfezione è inesprimibile, mi sto mettendo in condizione di rendermi semplicemente ridicolo, senza riuscire a far rivivere neppure uno di quegli indimenticabili istanti.

Non capisco gli scrittori. Per quanto mi riguarda scrivere è una pratica di penoso masochismo, mi lascia lo stesso senso di amarezza e frustrazione dell’amore solitario. Il mio diario aveva un senso prima, quando lei lo leggeva di nascosto; a volte ci scrivevo cose provocatorie al solo scopo di stupirla e scandalizzarla, era un piccolo divertimento innocente e sadico. Ma adesso che senso ha? Mi dirai che lo scrivo per te, dottore. Ora, spero che tu non ti offenda se ti dico che non è esattamente la stessa cosa.

Lo scrittore è sempre solo. È solo mentre scrive, e non sa se qualcuno lo leggerà; è solo mentre la sua opera viene letta, perché non può vedere l'effetto che sta facendo sul lettore, se lo annoia, lo diverte, lo appassiona: nessun feed-back possibile. Di fatto si trova in una con-dizione di puro autismo: fra lui e i suoi lettori non c’è nessun rapporto. È meno frustrante la condizione dell'attore, che se non altro ha la possibilità di assistere immediatamente alla reazione del pubblico.

A volte, per alleviare la pena di questa tortura che mi autoinfliggo, immagino di rivolgere la parola a un lettore invisibile che sta dietro le mie spalle e legge quello che scrivo in tempo reale; lo interrogo, ascolto le sue risposte, i suoi commenti, e questo mi dà un po' di con-forto. Poi ritorno in me e mi vedo per quel che sono: un coglione che se ne sta chiuso da solo in camera, seduto al pc, mentre gli altri chiacchierano e giocano a carte al piano di sotto. E mi domando cosa sia mai la vita, che senso abbiano i rapporti umani, quando io quasi quotidianamente sono costretto ad accampare scuse per evitare la compagnia della ragazza che dico di amare e potermi rinchiudere qui a svolgere la sola attività in grado di lenire il mio malessere: dialogare con i miei fantasmi.

Ci sei, lettore? Se mi ascolti, vorrei farti una domanda: hai mai provato una felicità così forte da sentire male al cuore? Dico proprio fisicamente, non in senso metaforico.

Spero di sì, altrimenti non potrai capire quello che sto per raccontare.

...

Durante la convalescenza di Antonia le ero rimasto accanto con discrezione, concedendomi soltanto brevi passeggiate alternate a momenti di studio; avevo rimandato per settimane l’occasione che attendevo con ansia. Ora il momento era arrivato: Antonia era stata di parola, aveva accettato di trascorrere con me tre giorni dopo gli scritti dell’esame di maturità, che, a detta del membro interno, avevo superato in modo piuttosto brillante. Lei, orgogliosa di me, mi aveva concesso quella breve vacanza come un premio e una parentesi di relax prima dell’orale. Avevo quasi un mese di tempo per prepararlo: la mia sezione sarebbe passata per ultima ed era stata estratta la lettera elle, per cui il mio orale non sarebbe stato prima della metà di luglio.

Come tutte le famiglie della media e alta borghesia torinese, anche i miei hanno una casa in Liguria, una villetta sulla collina di Bordighera. Io però ci vado molto di rado: la Liguria di Ponente non è abbastanza selvaggia per i miei gusti; preferisco gli scogli aspri del Levante, quell’incredibile Portovenere con il suo cimitero a picco sul mondo, le inquietanti grotte di Byron, l’agghiacciante Cristo degli abissi di San Fruttuoso. Comunque avevo scartato a priori la Liguria: non mi era neppure passato per la testa di proporre ad Antonia una passeggiata sulla Via dell’Amore o qualche altra situazione alla Peynet. Volevo che la nostra vacanza fosse qualcosa di assolutamente fuori dell’ordinario, come in effetti fu.

Avevo scelto una zona della Toscana dove da bambino ero stato in vacanza con i miei e che mi aveva lasciato una specie di buco nell’anima, il desiderio di viverci qualcosa d’importante. Allora non lo sapevo, ma di recente ho scoperto che proprio lì, a due passi, sorge il mulino bianco della pubblicità; questo mi ha confermato ancora una volta che il Demiurgo è dotato di un perverso senso dell'umorismo, almeno nei miei confronti: ama prendere di mira i perdenti e dissimula il sarcasmo dietro freddure di stile anglosassone tipo "stamattina ero così distratto che ho indossato il reggiseno di mio nonno". Una cosa così.

Avevo ottenuto il permesso di usare la bmw di mio padre, reso indulgente dal mio evidente miglioramento psicofisico e dal fatto che gli scritti d’esame fossero andati bene; avevo raccontato ai miei che avrei passato due o tre giorni da un mio compagno che aveva una casa in campagna, in modo da poter stare tranquilli a studiare per l’orale. Quanto ad Antonia, aveva semplicemente detto a Michele che aveva bisogno di restare a casa per qualche giorno, dato che si sentiva ancora un po’ indebolita dai postumi dell’operazione. Nessuno aveva minimamente sospettato che fossimo partiti insieme.

Durante il viaggio di andata guidavo io, male come tutti gli ubriachi, ora premendo troppo sull’acceleratore, ora rallentando insensatamente, mentre lei, un po’ divertita un po’ preoccupata, mi diceva di stare attento alla strada; man mano che ci allontanavamo dal mondo conosciuto, inoltrandoci nel paesaggio surreale delle crete senesi, la mia ebbrezza cresceva: accarezzavo con lo sguardo i mezzi toni di quelle terre biancastre disegnate dai solchi di pettine degli aratri, il dorso ondulato dei colli sormontati da piccole macchie di cipressi come creste di dinosauri biondi addormentati. 

Ad un bivio imboccai per sbaglio una stradina secondaria che si arrampicava su per le colline e si perdeva fra boschi di querce e castagni. Adoro perdermi, e non riesco ad immaginare esperienza più beatificante che perdermi con lei. Abbiamo sbagliato strada, le dissi, non so dove stiamo andando; lei appoggiò la testa sulla mia spalla e mi disse sorridendo vai avanti, da qualche parte arriveremo. Erano le parole che avevo sperato con tutto il cuore di sentirmi dire da qualcuno, letteralmente la password da cui avrei riconosciuto la donna della mia vita. In quel momento la amai di un amore assoluto. Mentre procedevamo a caso sentivo di essere così felice da stare male. Era quella la risposta, era quello il senso della vita: andare avanti così con lei senza sapere dove. Le cose sono molto cambiate da allora, ma ancor oggi penso che, se solo mi fosse possibile rapirla e far perdere le nostre tracce, viaggerei con lei nel nulla fino alla morte, senza provare il minimo rimpianto per tutto il resto. Quella consapevolezza mi atterriva: sapevo che se avessi commesso il minimo errore sarebbe stata la fine di tutto. Il cuore mi batteva all’impazzata.

Ad un tratto accostai e mi fermai in una piccola radura fra due enormi querce da sughero; in quel momento lo stereo dell'automobile trasmetteva Vivaldi: avevo scelto una colonna sonora tutta di musica classica per quel viaggio indimenticabile. Ho bisogno di carburante le dissi; lei obiettò che il serbatoio era quasi pieno, poi comprese e sorrise. La baciai ininterrottamente per tutto il primo movimento dello Stabat Mater.

Arrivammo a destinazione che era già buio. L’agriturismo sorgeva in cima ad un colle non troppo alto, circondato da cipressi, querce e ulivi: era un'antica casa colonica interamente in pietra arenaria a vista, com'è tipico della miglior tradizione toscana, ristrutturata con gusto, pulita e accogliente. Pretesi di pagare tutto io e non volli sentire ragioni quando lei si oppose: da qualche tempo la paga settimanale che mi passavano i miei, in precedenza sconsideratamente sperperata, finiva per intero in un apposito fondo cassa: potevo permettermi di farle trascorrere un fine settimana all’altezza di qualunque aspettativa.

Ci aggirammo per un po' all'interno del casale: entrammo in un portico con archi dove sorgeva l'antico forno a legna, con tavoli e sedie per mangiare all'aperto; poco oltre, attraverso una loggia, alcuni scalini conducevano ad una terrazza con una straordinaria vista panoramica su campi e colli. Nel grande giardino, all'interno di un prato all'inglese, c'era la piscina privata con ombrelloni e lettini. Dal portico esterno si accedeva alla cucina con volta a botte in mattoni pieni; un grande arco, anch'esso di mattoni, separava la cucina dalla sala da pranzo con un grande caminetto; dal salone una scala in cotto portava al primo piano, dove un lungo corridoio ci condusse finalmente alla nostra camera matrimoniale: era ampia e luminosa, dipinta di un caldo color albicocca, con il pavimento in cotto lavorato a mano e i classici soffitti toscani con travicelli e tavelle a vista. L'arredamento era una sapiente combinazione di pezzi antichi e moderni; l'odore dominante era quello del legno, intenso e rassicurante come quello del nostro fienile. Il letto, in ferro battuto dipinto di verde chiaro, aveva delle lenzuola di lino candide che profumavano di lavanda. Pensai che sarebbe stato meraviglioso trascorrere in quel letto le mie notti con lei.

È strano come io ricordi ogni minimo dettaglio di quell'agriturismo che non sarei in grado di ritrovare (ho rimosso perfino il nome della località) ed in cui certamente non rimetterò più piede, mentre il resto dei due giorni successivi si confonde nella mia mente in una strana nebbia, come se io li avessi vissuti in uno stato di narcosi. 

Hai mai notato, lettore immaginario, che quando ripensi alle esperienze più intense del tuo passato di solito ti viene in mente un unico fotogramma? È come se le sensazioni che hai provato si fossero concentrate in un singolo particolare, per lo più insignificante. Quel particolare ti resterà conficcato nella mente per sempre.

Così è per me: di quei due giorni io conservo solo una serie di istantanee che fotografano dettagli, mai il quadro completo: la sua gonna bianca con i papaveri rossi, il suo spazzolino da denti accanto al mio, il suo viso di nuovo sano, leggermente abbronzato, pieno di piccole efelidi, le cene a lume di candela nel dehors del ristorante, noi due così distratti da rovesciare il vino a forza di ridere e guardarci negli occhi, i vicini di tavolo sussurranti, lei improvvisamente imbarazzata, io che la baciavo ostentatamente davanti a tutti sfidando il perbenismo dei moralisti, il suo sorriso timido e fiducioso mentre si appoggiava alla mia spalla.

Ecco, dottore, il ristorante è un'esperienza della quale sento di doverti parlare. Probabilmente mi prenderai per idiota, ma per me mangiare al ristorante con lei era come prendere un ascensore che mi catapultava all'ultimo piano di un grattacielo di felicità. Non amo particolarmente i ristoranti, anche perché sono vegetariano e generalmente mangio poco: non ho un buon rapporto con il cibo, come sai. Però stare seduto a tavola con Antonia di fronte a quei piatti tipici della cucina toscana, mentre lei, che non è vegetariana, faceva onore a tutte le portate, dall'antipasto al dolce, versarle nel calice quell'ottimo vino rosso leggermente frizzante, una specie di Brunello o qualcosa del genere, guardarla mangiare con appetito sorridendo, felice come una bambina, era per me una gioia indescrivibile: il cuore mi batteva a mille, tanto che dovevo sforzarmi di ricordare che dovevo mangiare qualcosa anch'io e assaggiare almeno gli eccellenti piatti di pasta fatta in casa della quale non ricordo il nome, dei grossi spaghetti bitorzoluti tipici di quella zona, conditi con un saporitissimo sugo vegetale a base di aglio. Non ti so dire perché mi desse una simile emozione pranzare con lei in quel ristorante: so solo che è stata una delle esperienze più intense della mia vita, tanto che io stesso a posteriori me ne stupisco. Ma ne ero stupito anche allora: stupito e incredulo. Letteralmente, ringraziavo Dio di esistere in ogni singolo momento di quei pranzi e di quelle cene. Anche i vicini di tavolo, dopo un po', la smettevano di guardarci con ironia e si arrendevano all’evidenza dei fatti, perché la mia espressione era troppo ebete per poter pensare che io non fossi innamorato di lei.

E poi, nel pomeriggio, la gita al mare, quell’angolo di spiaggia fra gli scogli, una piscina naturale con l’acqua di un’incredibile trasparenza verdeazzurra: avevamo gli stessi gusti in fatto di spiagge, non ci piaceva la sabbia, amavamo le rocce e l'acqua limpida dei fondali di scogli. Ricordo il suo costume da bagno così severo, non il solito bikini, una specie di abi-tino nero con una gonnellina sbieca trasparente, casto ed elegantissimo. Fu una grande sorpresa per me scoprire che Antonia nuotava come un pesce; in presenza dei miei, nella nostra piscina, era sempre un po' intimidita, per cui mi ero fatto l'idea che non le piacesse nuotare, ma dovetti ricredermi completamente: in mare aveva una naturale acquaticità, si può dire che fosse il suo elemento. Anch'io ero un buon nuotatore, come del resto mio fratello; avevo vinto qualche gara in stile libero e me la cavavo più che discretamente anche a rana e a farfalla, ma nel mio caso era quasi doveroso: la famiglia Kellerman aveva investito un bel po' di soldi in allenatori e piscine, mentre Antonia nuotava per così dire di suo, senza uno stile particolare, ma in modo assolutamente spontaneo, mettendo la testa sott'acqua senza la tipica preoccupazione femminile di bagnarsi i capelli: riemergeva scrollandoli e sorridendo, era bellissimo per me guardarla. Rimaneva in acqua per ore: dovevo quasi costringerla ad uscire, quando vedevo che aveva i polpastrelli delle dita quasi cotti dalla salsedine. Ricordo i tuffi da un’alta roccia, io che mi lanciavo di testa da un'altezza di quasi dieci metri, lei che non ne aveva il coraggio, ma alla fine si buttava di piedi tutta rannicchiata su se stessa sollevando enormi spruzzi,  mentre io dall'acqua la applaudivo e le gridavo brava amore. E poi le nostre immersioni, il fondale con le stelle marine che le indicavo sott’acqua tenendola per mano, noi due sdraiati sul bagnasciuga a prendere le onde, la spiaggia al chiaro di luna, i piedi nudi, l’odore delle alghe notturne, io fermo di fronte alla distesa nera del mare, lei fra le mie braccia, con la schiena appoggiata al mio petto, in silenzio.

Rileggo quello che ho appena scritto e mi rendo conto che i miei timori erano fondati: mi sembra di leggere il testo di una canzone di Mogol-Battisti, non assomiglia affatto a quello che provavo. Ad ogni modo mi sforzerò ugualmente di andare avanti nel racconto.

Ho omesso di proposito quello che succedeva dopo le nostre serate, e non per un improvviso pudore, ma semplicemente perché non succedeva niente. Il nostro accordo continuava a proibire il sesso, e il fatto di ritrovarci soli per tre giorni, di dormire nello stesso letto, non cambiava per nulla i nostri patti. Sapevo che era molto difficile, ma su questo punto ero assolutamente intransigente: avevo i miei buoni motivi per esserlo e dovevo tenermeli per me. 

La prima notte lei si strinse subito contro il mio pigiama di cotone azzurro, troppo ingenua cintura di castità. Ero pronto a questa evenienza e fermai subito la sua mano che tentava di infilarsi dentro i miei pantaloni.

- No.

- Non vuoi proprio?

- No, Antonia.

- Da quanto tempo non lo facciamo?

Sarei stato in grado di dirle il numero esatto dei giorni, delle ore e dei minuti.

- Non lo so, - risposi vago - non molto, comunque.

- Dimmi la verità, Emmanuel: non ti piaccio più? Non mi offendo, posso capirti.

- Non dire cazzate.

- Allora perché?

- Perché ci ha fatto male, Antonia. Questi mesi mi sono serviti per disintossicarmi. Ora finalmente mi sento bene.

- Perché? - chiese nuovamente.

- Perché so che potrà durare.

Mi ero sbilanciato un po’ troppo: non parlai più, dissi che avevo molto sonno e finsi di assopirmi. Lei mi prese una mano e dopo qualche minuto si addormentò con la testa sul mio petto, come una bambina. Rimasi sveglio a lungo ad ascoltarla respirare, immerso nei miei pensieri; uno in particolare occupava la mia mente: c'è un senso profondissimo nella purezza. Se la mia gioia di quei giorni fosse stata mescolata al sesso, non ne avrei mai scoperto la natura e l'intensità: l'avrei confusa con il piacere. Ora invece mi appariva in tutta la sua nuda verità.

Quid albedo? Nisi integra castitas. Castitas, securitas mentis, sanitas corporis est, nisi enim unusquisque miles castus perseveraverit, ad perpetuam requiem venire, et Deum videre non poterit[1]

E finalmente arrivò il terzo giorno, l’ultimo. Preparavo quel momento da tempo: l’avevo immaginato, studiato, ripetuto infinite volte nella mia mente, in modo che ogni singolo particolare fosse perfetto. Infatti tutto il copione si svolse secondo le mie previsioni, eccezion fatta per un unico dettaglio. 



[1] Che cos'è il candore, se non l'integra castità? La castità è sicurezza della mente e sanità del corpo. Infatti ogni soldato, se non avrà perseverato nella castità, non potrà raggiungere la pace perpetua e vedere Dio.