Emmanuel - The broken diary - Quinta e ultima stagione - Fifth and Final Season

5.8. Incontro - Parte I (L'onda anomala del passato sta per abbattersi su Emmanuel)

Antonia Del Monaco Season 5 Episode 8

Un episodio cruciale, complesso, diviso in due parti e quattro scene.

il diario di Emmanuel riprende all'improvviso ed è proprio la sua voce a raccontarci il finale della sua storia.

Finalmente, dopo più di un anno di assenza, Emmanuel torna a Torino dai suoi.

Il ragazzo crede di essersi ampiamente premunito contro le sorprese che possono attenderlo a casa, anche perché è stato parzialmente preavvisato da Arianna, ma la realtà si rivela ben più complicata: Emmanuel si rende confusamente conto che l'onda anomala del passato, da cui ha cercato di fuggire, sta per abbattersi su di lui.

Gli interpreti sono Paolo Malgioglio e Antonia Del Monaco.

La colonna sonora include una cover di "Incontro" di Francesco Guccini e un brano di "Paranoid android" dei Radiohead.

...

A crucial, complex episode, divided into two parts and four scenes.

Emmanuel's diary suddenly resumes and it is his voice that tells us the end of his story.

Finally, after more than a year of absence, Emmanuel returns to Turin to his family.

The boy believes he is well protected against the surprises that may await him at home, also because he was partially warned by Arianna, but the reality turns out to be much more complicated: Emmanuel confusedly realizes that the tidal wave of the past, from which he tried to escape, is about to crash down on him.

The interpreters are Paolo Malgioglio and Antonia Del Monaco.

The soundtrack includes a cover of "Incontro" by Francesco Guccini and a song from "Paranoid android" by Radiohead.

Incontro
(Settembre 1997).

E correndo m'incontrò lungo le scale...

Eccomi di nuovo qua, dottore. Che effetto fa riascoltare la mia voce dopo tutto questo tempo?
Scherzo: non puoi certo avere sentito la mia mancanza, dato che fino all’inizio di giugno ci siamo visti una volta alla settimana. Nel frattempo ho svolto diligentemente il mio compitino, ho scritto il mio diario e te l’ho fatto leggere un po’ per volta, anche se non ne ho mai capito lo scopo e spesso, scusa la franchezza, ho avuto l’impressione di assecondare una sorta di inconscio voyeurismo. 
Ma tu mi rimproveri: "Caro il mio ragazzo, nel suo racconto c'è un buco di più di un anno. Il suo diario si ferma a giugno del 1996 e adesso siamo a settembre del 1997. Non erano questi i patti; e non mi dica che durante quest’anno ci siamo parlati di persona, perché non è la stessa cosa e lei lo sa benissimo: quando uno scrive un diario è solo con se stesso e mentire a se stessi non ha senso; si è costretti alla sincerità".
Non affrettarti a giudicarmi male, dottore: quello che sapevo l’ho scritto, ma non puoi costringermi a scrivere quello che non so. Il fatto è che non sono ancora riuscito a decifrare il senso di quello che mi è successo in quest'ultimo anno. Se non avessi paura di sembrarti patetico, ti direi che non so più chi sono. Mi è facile, anzi facilissimo, ricostruire chi ero a sedici anni, ma mi risulta tremendamente difficile capire chi sono a diciannove. Tutto quello che so è che sono ancora vivo e non soffro troppo, anzi, a volte non soffro affatto; ma questa situazione di atarassia non mi rende felice, anzi: mi fa sentire estraneo a me stesso. In termini filosofici, sto vivendo il quarto punto del tetrafarmaco epicureo: la paura di non poter essere felice. Mi sento come un turacciolo di sughero in balìa delle onde: mentre galleggio in superficie, turbinando nei mulinelli e dondolandomi nella risacca, non so che sentimenti provo, non so se ne provo. Avrò bisogno di tempo, credo, per abituarmi al nuovo me stesso.
Colgo l’occasione per ringraziarti tardivamente della scatola di sigari: mi sono sempre dimenticato di farlo. Ne ho provato uno e ho tossito fin quasi a sputare i polmoni, ma devo ammettere che il sapore che lascia in bocca non è male. Un giorno, forse, mi spiegherai che senso abbia avuto quel regalo.
Comunque sia, se proprio ci tieni, sono pronto a buttare giù quel che serve per colmare questo buco di un anno che mi rinfacci; ti accorgerai subito della differenza: mi bastano poche parole questa volta, non saprei trovarne di più. Puoi integrarle, se credi, con le molte che altri ti avranno detto sul mio conto nel frattempo; non sono certo io a doverti insegnare che non è il caso di credere alle loro affermazioni: purtroppo il ritratto che gli altri fanno del prossimo è quasi sempre inattendibile; già è poco attendibile quello che uno fa di se stesso. 
Mi basteranno dieci righe per sintetizzare il tutto. Anzi, facciamo quindici: crepi l’avarizia.

Per qualche tempo sono rimasto immerso nella melma come l’Ofelia di Millais, con la differenza che io avevo la faccia rivolta all’ingiù. Poi una mano mi ha afferrato per la collottola e mi ha riportato a galla, ripulendomi e rassettandomi fino a ridarmi una forma pressoché umana. Ho ricominciato a camminare come i bambini di un anno, a piccoli passi incerti, dapprima cercando il buio e gli angoli nascosti: la luce del sole mi terrorizzava, mi dava crisi di panico che mi mozzavano il respiro. Ero costretto a rimettermi a letto, scosso dai brividi e con il sangue che mi martellava nelle tempie. Poi, poco per volta, ho incominciato ad uscire allo scoperto per escursioni sempre più prolungate, affrontando la luce del sole con l'ausilio degli occhiali scuri. Respirare mi è diventato più facile, la presenza di qualche persona cara mi ha confortato, il sesso è tornato ad essere possibile, a volte piacevole. Mi sono reso conto di essere ancora vivo in qualche modo e questo mi ha dato sollievo: evidentemente non avevo tutta quella gran voglia di morire. Mi ero liberato della zavorra del passato ed ero quasi felice, anche se ricordavo troppo bene il sapore della vera felicità; ma quello stato di continua ebbrezza si paga al prezzo del proprio sangue: il mio cuore era stato sbattuto, frullato, omogeneizzato, ridotto ad una pappa informe. Non avvertivo più il bisogno di quelle emozioni: erano come un ricordo lontano, il ricordo di una vita precedente, la vita di qualcun altro.
Ecco fatto, dottore: il resoconto di un anno intero di fluttuazione nel vuoto, durante il quale ho sempre avuto la piacevole compagnia di una ragazza. Ah sì, dimenticavo: ho anche dato l’esame di Maturità, superandolo abbastanza bene. Ho finito, non c’è altro da dire.

Hai ragione, sto mentendo. È vero, non si può mentire a se stessi scrivendo un diario: mi sento un idiota per averlo fatto. Cercherò di essere sincero fino in fondo, anche se mi costa un’enorme fatica.
Qualche giorno fa, mentre galleggiavo in superficie, sonnecchiando e fantasticando di vele spiegate e vento in poppa, sono stato travolto all’improvviso da un’onda anomala. Cose strane, incredibili, emozioni violente hanno frullato la poltiglia inerte del mio cuore, lo hanno fatto battere di nuovo all’impazzata, ma in quel modo disordinato e caotico che ha più a che fare con il preludio di un infarto che con i sentimenti. Non sentivo di amare nessuno, stavo solo follemente male e poi follemente bene e poi di nuovo follemente male, malissimo. Mi aggiravo come un ubriaco fra le cose sbattendo contro tutti i muri, ridendo della mia idiozia e di quella degli altri. Mi sono fracassato contro un albero e mi sono fatto male, ma non abbastanza. Erano tutti, tutti completamente sbronzi, non potevo fare altro che ridere di loro e di me stesso. Non era né bello né brutto, era solo violento, brutale e insensato. Era come certe catastrofi naturali che puoi soltanto subire. Non si chiamava né amore né odio né niente di simile: non aveva un nome.
Ora sono completamente destabilizzato, e c’è di peggio: sulla base di questo stato d’animo dovrò prendere delle decisioni importanti.
Non chiedermi di giudicare tutto questo, non ne sono in grado: posso solo provare a raccontarlo.

Premetto che da mesi pensavo con una certa ansia al momento in cui sarei tornato a casa: sapevo di dover andare a salutare i miei, prima o poi; più poi che prima, perché le mie ginocchia erano sempre troppo molli per affrontare quel passo e non mi sentivo pronto per recitare la penosa commedia che le circostanze mi avrebbero richiesto (“quello che non sa nulla e casca dalle nuvole”). Mi accontentavo di sentirli per telefono, senza mai fare domande dirette su argomenti che esulassero dal tempo atmosferico e dalla salute generale, a maggior ragione da quando avevo saputo che Michele e Antonia si erano lasciati. Dal momento che davo per scontato che la causa fosse Frédéric, preferivo essere lasciato all'oscuro di tutto. La domanda canonica era: "e voi tutti bene?", alla quale faceva seguito l'immancabile risposta affermativa. Questo mi dava un po' di conforto: mi accontentavo di immaginarli tutti in salute e felici. Ma il tempo trascorso era ormai troppo e l'esame era stato superato: non avevo più scuse per non tornare a casa, e i miei me lo facevano capire con rimostranze sempre più insistenti. 
Soltanto all’inizio di settembre ho trovato il coraggio di andare a trovarli: non li vedevo da più di un anno. Ti descrivo la scena dell'incontro e il resto della giornata al presente, come piace a te.

Appena metto piede nel giardino della mia villa, due grossi pastori tedeschi mi si lanciano contro abbaiando; mio padre li richiama severamente. Stupito, mi chino ad accarezzarli entrambi sulla testa: subito si ammansiscono scodinzolando. Con i cani ci so fare.
Cos’è questa novità? – domando a mio padre.
Ti presento Olaf e Marina, i nostri nuovi cani da guardia.
Lo fisso sbigottito.
Da guardia?
Sì, perché? È normale che in una villa in collina ci siano dei cani da guardia. Prima non si poteva perché c’era il tuo, cioè, quella specie di cane.
Rinuncio a commentare e mi limito ad accarezzare di nuovo i due grossi e magnifici cani, che, con l’intelligenza tipica della razza, hanno immediatamente capito che faccio parte dei “padroni” e si stanno regolando di conseguenza: decifrato l’odore del nuovo padrone e trovatolo evidentemente convincente, mi trotterellano al fianco con la lingua penzoloni e un’espressione soddisfatta, scortandomi come due fedeli guardiani fino all’ingresso.
In casa tutto si svolge come da copione: saluti, baci, abbracci, la commozione di mia madre, le lacrime di Teresa, i complimenti di mio padre per l'esame, le felicitazioni di tutti per il mio magnifico aspetto e per il mio recente fidanzamento.  
Poi niente, si fa finta che nulla sia successo. Si fa finta che mio fratello non esista, nessuno sembra rendersi conto che non è in casa, si fa finta che io sia un idiota e non me ne accorga. Per un po’ sto al gioco, dissimulando lo sconcerto e cercando di capire dove vogliano andare a parare. Ovviamente escludo a priori che questa sceneggiata sia dovuta al fatto che qualcuno sia al corrente dei miei trascorsi con Antonia: non può essere stata così folle da aver lasciato trapelare il nostro segreto. Dunque perché tutte queste cautele nei miei confronti?
Appena entro in salotto, mi accorgo subito che qualcosa è cambiato: resto a fissare la visione d'insieme con profondo sconcerto. Manca qualcosa. Anzi, mancano un sacco di cose: dove sono finiti i tappeti persiani, sostituiti da modeste copie che perfino un profano come me riconosce come tali? E dov'è finita l'abbondante argenteria che brillava sul ripiano di ogni mobile, quell'argenteria alla quale mia madre teneva tanto e che lucidava personalmente una volta al mese con un prodotto rosa puzzolente? Una sottile angoscia mi pervade: non per il valore materiale di quegli oggetti, ma per il sottinteso, il non detto. I miei mi stanno nascondendo qualcosa, e questo qualcosa non è nulla di positivo.
Mi viene comunicato che a pranzo saremo solo in tre: mio padre, mia madre ed io; penso che questo, se non altro, mi consentirà di apprezzare senza ulteriori fastidi le ottime portate di Teresa, che mi sorride e mi accarezza i capelli ogni volta che mi incontra attraverso le stanze chiamandomi Manuelito. 
Quando entro in sala da pranzo, però, a momenti ci resto secco: mi blocco senza dire una parola. Mia madre mi invita a sedermi a tavola, ma io resto immobile a fissare la parete.
Dov'è finita? riesco a dire alla fine.
Dov'è finita chi? finge di non capire mia madre.
Fatico a mascherare l'indignazione. Taccio ancora per qualche secondo, poi dico:
La filatrice. Dove diavolo è finita?
A malapena riesco ad ascoltare la risposta di mio padre, che mi imbastisce una scusa penosa a proposito di un bravo restauratore che se ne starebbe occupando. Quel quadro era in ottime condizioni, non aveva alcun bisogno di restauro. Una sorda collera mi invade, e non riesco nemmeno a capirne il perché: non sono mai stato attaccato agli oggetti materiali, ma a quell'oggetto sì. Di colpo mi rendo conto che quel magnifico dipinto a grandezza naturale, che ero abituato a vedere ogni volta che entravo in sala da pranzo, faceva parte integrante della mia infanzia, in un certo senso la riassumeva. Senza di lei era tutto diverso. E poi proprio di fronte a quel quadro, sotto lo sguardo sorridente e malizioso della filatrice, avevo conosciuto Antonia. 
All'improvviso mi rendo conto che sto per piangere. Dico ai miei che devo andare a lavarmi le mani ed occupo i dieci minuti che trascorro in bagno ad ingoiare le lacrime. Quando ritorno in sala da pranzo e mi siedo al mio posto, in apparenza sono sereno. L’ottimo pranzo, ricco di portate vegetariane, ed il calore premuroso con cui Teresa me le serve, mi aiutano a tornare in me.
Continuo a trovare incomprensibile il silenzio dei miei su mio fratello: è come se non si ricordassero della sua esistenza, e, quel che è peggio, è come se dessero per scontato che non me ne ricordi neppure io. Anche questo mi colpisce e mi offende.
Dopo pranzo pieghiamo con cura i tovaglioli, come se fosse importante. Infilo il mio tovagliolo nell'anello di legno di bosso personalizzato con le mie iniziali, come se fosse normale, esibisco un sorriso di circostanza e mi decido a formulare la domanda con la massima naturalezza possibile:
E Michele?
Mia madre si alza:
Venga Teresa, andiamo a disfare la valigia.
Mio padre le lancia uno sguardo severo. A questo punto ne ho abbastanza.
Tranquilla mamma, le dico so tutto.
Teresa si pietrifica come la moglie di Lot, immobile con il ginocchio piegato e il piede appoggiato sul primo gradino della scala di marmo.
Cosa sai? chiede mio padre.
Che si sono separati, papà.
Come fai a saperlo?
Me l'ha detto Arianna.
Mia madre si volta e mi fissa:
Arianna? Ma quando?
Lei e Michele si sono incontrati, mamma, non lo sapevi?
No, Michele non me l'ha detto. Ma cosa sai esattamente?
Andate a disfare la valigia taglia corto mio padre.
Messaggio chiaro e forte: sono cose da uomini. Le donne spariscono su per le scale. 
Mio padre appoggia i gomiti sulla tavola e si passa una mano fra i capelli grigi. Provo una strana tenerezza: mi rendo conto che è ancora un bell’uomo e che mi è mancato. Attendo in silenzio: il mio volto è una maschera di cera, rispecchia alla perfezione il vuoto pneumatico che ho fatto nella mia mente. Sono pronto a qualunque rivelazione: in quel vuoto galleggerà senza produrre alcun effetto.
Il matrimonio non ha funzionato, Emmanuel. Sono cose che capitano. Un lungo fidanzamento non è una garanzia: la convivenza quotidiana è un'altra cosa. 
Lo so.
Una coppia su tre si separa dopo pochi mesi.
Lo so.
Non è nulla di tragico.
Lo so.
Ovvietà per ovvietà, ne aggiungo una anch'io:
Per fortuna Antonia non può avere figli: se ci fosse stato di mezzo un bambino sarebbe stato peggio.
Mio padre lascia cadere la mia osservazione, forse considerandola troppo banale.
Comunque tuo fratello lo conosci: è una quercia, non si lascia abbattere. Sta già con un’altra. 
Di già? Buon per lui. Ma dov'è adesso?
Al Caprera, ma stasera verrà a cena da noi.
Con la nuova fidanzata?
No. Non è una cosa ufficiale, non la porta ancora a casa.
Meno male, non avevo nessuna voglia di conoscerla. 
La conosci già: è Laura.
Laura? 
Perché ti stupisci? È una bella ragazza.
Non abbiamo gli stessi gusti in fatto di donne, papà. Ma in fondo è a lui che deve piacere.
Mi stiracchio con uno sbadiglio e mi alzo da tavola, buttandomi in spalla la giacca di lino chiaro intonata ai pantaloni. Fa caldo: mi sono tolto la cravatta, ho sbottonato la camicia e ho arrotolato le maniche fino al gomito. Passando dall'entrata mi vedo nello specchio: devo ammettere che il travestimento da ragazzo serio mi dona. Mio padre mi guarda allontanarmi con un po' di tristezza: brutto momento quando anche l'ultimo dei cuccioli diventa grande.
Sei un uomo, ormai.
Mi volto con un sorriso:
Ho quasi vent’anni, pa’.
Nel pomeriggio vado al fiume a visitare la tomba di Tegame: la rozza croce di legno non c'è più, ma riconosco subito il luogo della sepoltura. Sorvolo sull'effetto che mi fa rivedere quei luoghi. Mi dò un alibi: lo strazio è ancora recente, per forza ci sto così male. Naturalmente mi tengo alla larga dal fienile. Mi concentro con tutte le mie forze sul pensiero di Arianna, una boccata d'ossigeno in quella caligine soffocante; la chiamo al telefono, le parlo per una decina di minuti e mi sento subito meglio.
Lo ammetto, la mia città mi è mancata: ho voglia di rivedere Torino dalla collina. Salgo in macchina e faccio un giro dalle parti dell'Eremo; sarebbe stato meglio evitare quella zona, ma si sa, certi automatismi sono duri da vincere. Mi dirigo verso Villa Genero, posteggio davanti al cancello d'ingresso e scendo dall'auto. Sto passeggiando lungo il viale, quando sento una mano pesante posarsi sulla mia spalla. Mi volto incazzato pensando ad un tossico: invece è Carlos.