Emmanuel - The broken diary - Quinta e ultima stagione - Fifth and Final Season

5.10. Come se fosse normale (Emmanuel rivede Antonia dopo più di un anno)

Antonia Del Monaco Season 5 Episode 10

E siamo al dunque: finalmente Emmanuel rivede Antonia, dopo più di un anno di lontananza.
Il ragazzo, che ha avuto da suo fratello Michele il nuovo indirizzo di lei, non resiste alla tentazione di andare a trovarla, costi quel che costi, e si precipita da lei correndo all'impazzata con la BMW di suo padre per le strade di campagna, elegantissimo in giacca e cravatta.
Ma, arrivato davanti alla sua casa, viene colto dal panico...
Il loro incontro sarà del tutto diverso da come lui lo aveva immaginato.
Gli interpreti sono Paolo Malgioglio e Elisa Gandolfi.
La colonna sonora comprende un brano di "N. 13 Baby" dei Pixies, un minuetto di Boccherini e il Trio in Mi bemolle opera 100 di Schubert.
... 
And here we are: finally Emmanuel sees Antonia again, after more than a year apart.
The boy, who received her new address from his brother Michele, cannot resist the temptation to go and see her, no matter what the cost, and rushes to her, racing madly in his father's BMW through the country roads, very elegant in a jacket and tie.
But, when he arrives in front of her house, he is struck by panic...
Their meeting will be completely different from what he had imagined.
The performers are Paolo Malgioglio and Elisa Gandolfi.
The soundtrack includes a piece from "N. 13 Baby" by the Pixies, a minuet by Boccherini and the Trio in E flat, opus 100 by Schubert.

Come se fosse normale

(6 settembre 1997)

 Velut prati ultimi flos

 Sulla mia lapide non scriverai velut prati ultimi flos. L’aratro è passato da un pezzo. Conoscevi il bruco, signora: ora vedrai la farfalla.

L’inizio è pessimo, battuta scontata e copione scadente. Anche la costumista lascia a desiderare: sono travestito da giovane yuppie, come se l'imitazione di un aspirante manager in carriera potesse fare colpo sulla protagonista del film. E perché, poi, dovrei fare colpo, visto che sto solo andando a trovare una vecchia amica? Farsi vedere in disordine però non è dignitoso: mi sistemo la cravatta e il colletto della giacca; sono l'eroe di questa storia, non ci si presenta sciatti al finale. 

Parcheggio la BMW accanto alla sua casa; mi specchio nel retrovisore finché non sono soddisfatto di quello che vedo; poi rivolgo lo sguardo alla strada per controllare se la macchina ingombri il passaggio, ma non si vede nessuno in questo sperduto viottolo di campagna, fra stoppie arrugginite come una vecchia ringhiera, casupole sparse e polvere dappertutto. C’è un maledetto vento africano. Respiro profondamente, scendo dall'auto e suono il campanello.

E se lei adesso - il cielo s'è fatto viola e il vento avviluppa le nuvole come matasse di cotone - d’un tratto mi si spalanca davanti un abisso di vuoto. Mi rendo conto di colpo che non ci siamo più parlati da quella volta. Non posso, non oggi. Mi volto precipitosamente per andarmene, ma è troppo tardi: la porta si apre.

Presentarsi di nuca, oltre ad essere ridicolo, è un errore strategico: in questo modo lei mi vedrà per prima e addio effetto sorpresa. Quest’attimo che trascorro sulla soglia, con la distesa dei campi davanti a me e la porta aperta alle mie spalle, ha la fissità di un dipinto di Magritte: attendo invano la battuta ironica ("la porta è da questa parte"), ma sento solo il silenzio. Mi volto.

Appoggiata allo stipite c'è una donna che ha una vaga rassomiglianza con lei, ma con dieci anni e dieci chili di più, i capelli rossi raccolti sulla nuca, il corpo inghiottito da un camicione a fiori e una mite dolcezza di mucca negli occhi senza colore. Grigi.

Nessuno dei due parla.

Il silenzio mi si appiccica addosso come il vento africano. Tiro fuori il fazzoletto dalla tasca e mi asciugo la fronte. Sorrido, ma il sorriso mi si rivolta in una smorfia ebete. Non riesco a salutarla, mi rendo conto che non so neppure se darle del tu o del lei. La sconosciuta invece mi parla con semplicità, come se ci fossimo visti ieri.

- Ciao - mi dice sorridendo, senza pronunciare il mio nome - Entra, non restare sulla soglia: c'è un vento molto fastidioso.

- Non vorrei disturbare.

Orribile la frase di circostanza. Orribile.

- Nessun disturbo, anzi, mi fa piacere. Seguimi.

Si volta per farmi strada. Nessuna sorpresa, non un fremito nella voce, negli occhi: come se fosse normale rivedermi dopo più di un anno; peggio ancora: come se la mia presenza non fosse niente di che. La seguo come un automa e sento che sto per svenire: una strategia da vile, ma è l’unico mezzo che mi viene in mente per sottrarmi a questo shock. Mi costringo a reagire in qualche modo: che m’importa di cosa pensa di me una perfetta estranea? Questa non è Antonia.

Nella casa dall'arredamento modesto ristagnano miasmi di soffritto e un odore d’amore casalingo. La sconosciuta è forse protagonista di squallori esistenziali ancor più inconfessabili. Mi coglie una vertigine, sento che vado fuori, non so dove. Rientro in me riassorbendomi come il riflusso della marea. Ma lei dov’è? La cerco dappertutto con lo sguardo, disperatamente. Intanto l'estranea continua a trattarmi con molta gentilezza.

- Siediti - mi dice. Mi ha condotto in un piccolo giardino sul retro della casa, al riparo dal vento. Mi siedo sotto un cipresso, una scelta a suo modo simbolica, e mi guardo attorno. Tutto è minuscolo come nella casa delle bambole, terribilmente carino: c’è anche un orto con carote, cipolle, pomodori e qualche rampicante indecifrabile; accanto a me un tavolo bianco di ferro smaltato, un dondolo e un’altalena (un'altalena?). La polvere mi fa starnutire.

- Salute.

Alzo gli occhi e la vedo che mi sorride. Eccola, per un attimo è proprio lei: provo uno scomposto moto di gioia; ma subito scompare e la sconosciuta si volta a fissare la collina con un gesto della mano come per scacciare una mosca.

- Come stai? - mi chiede generica.

- Come vedi.

- Molto bene, allora.

Taccio significativamente: non posso certo dire altrettanto di lei. Un po' cambiata: il fratellone era in vena di eufemismi.

Per circa mezz'ora mandiamo avanti una terribile conversazione a base di luoghi comuni e osservazioni metereologiche, una danza convenzionale come quella dei ragni quando stanno per uccidersi, ma senza la sua tragica dignità: assomiglia piuttosto a un minuetto settecentesco, uno di quei balli raffigurati in certi stucchevoli quadri di genere. Riverenza, piccoli passi scivolati, destra-sinistra, avanti-indietro, figura a cinque passi a forma di esse, passo en fleuret: neppure uno di quei ghirigori coreutici traccia segni intellegibili sulla lavagna della mia mente. L'unico aspetto positivo di questo balletto è il fatto che mi dà il tempo di raccogliere le idee e di fare mente locale, fino ad arrivare a prendere atto con riluttanza che questa dev’essere proprio Antonia e che le è successo qualcosa di incomprensibile durante la mia assenza. Mentre danzo un girotondo à la bohémienne con il fazzoletto di pizzo in mano, sono tutto concentrato su un pensiero ossessivo: questa non è la donna che amavo, non mi piace neppure fisicamente, me ne sono liberato, e allora perché mi si torce l'anima? Incomincio a intuire che la morte del mio amore non è la soluzione del problema, è l'inizio di un problema molto più grave. 

La coppia si prepara ad eseguire un pas de deux à la Rameau. Se proprio dobbiamo produrci in questa patetica imitazione di Barry Lyndon, voglio almeno che la colonna sonora sia quella giusta: fermo il giradischi, la puntina stride sul vinile, Boccherini tace: metto su il Trio in Mi bemolle opera 100 di Schubert, secondo movimento, uno dei brani più sublimi che io conosca. Sono pronto per il duello di sguardi a lume di candela.

- A proposito, - esordisco - fammi le congratulazioni: mi sono fidanzato.

- A proposito di cosa?

Il suo sguardo non tradisce la minima emozione. È tornata ad essere la professoressa che coglie in fallo l'alunno mettendo in risalto le sue incongruenze espressive. Questo mi pare molto appropriato.

- A proposito di me, ovviamente.

- Ho vinto la scommessa.

- Qual era già la posta in gioco?

- Non me la ricordo più.

Bugiarda.

Le scappa un mezzo sorriso:

- Siamo sempre stati un po’ smemorati noi due, eh?

Ormai non ho più dubbi: è proprio lei. O meglio, è lei, ma è finita dentro una mucca; questo pensiero mi restituisce di colpo il buonumore: sarà sufficiente tirarla fuori in qualche modo, magari lanciandole una corda attraverso la bocca del bovino; con un po' di impegno e una buona dose di olio di gomito ce la posso fare. Mi domando come abbia fatto il mite erbivoro ad ingoiarla. E che fine avrà fatto quella sua risata aperta, solare, esplosiva? Sarà che le mucche non ridono.

- A quando le nozze?

- Appena possibile. I suoi vorrebbero che prima mi laureassi, ma non possiamo certo aspettare cinque anni per sposarci.

- No, è chiaro. A che facoltà ti sei iscritto?

- Economia e commercio.

- Davvero?

- Davvero. Perché?

- Tuo fratello temeva che tu scegliessi qualche facoltà inutile, come ho fatto io.

- Non è inutile quello che stai facendo tu.

- Lo è ai fini lavorativi, se uno vuole fare carriera. 

- Giusto, la carriera.

- E così avremo un altro broker in famiglia. È farina del tuo sacco o di quello di Arianna?

Continua a non pronunciare il mio nome.

- Lo abbiamo deciso insieme. Decidiamo tutto insieme.

Sottolineatura infantile: infatti cade nel vuoto.

- Sono maturato molto da quando sto con lei; è una ragazza intelligente e piena di buon senso, doti piuttosto rare in una ragazza così carina.

Maturato, buon senso, carina: un tempo avrei picchiato a sangue uno che si esprimesse così. 

Lei non fa una piega:

- Sì, è piaciuta molto anche a me.

- Già, dimenticavo che vi siete conosciute. Di cosa avete parlato?

- Di te, naturalmente.

- E che vi siete dette?

- Niente di speciale. Mi ha detto che stavi bene, che eravate felici insieme.

- Ti ha detto questo?

- Perché, non è vero?

Esito un attimo di troppo.

- Certo che è vero: sto molto bene con lei.

Si china improvvisamente a raccogliere il fermacapelli che le è caduto nell’erba. Non le è sfuggito, l’ha lasciato cadere di proposito. Il piccolo incidente le serve per prendere tempo ed evitare di guardarmi negli occhi; non potrebbe dissimulare, non potrebbe fingere di aver dimenticato quello di cui abbiamo parlato per mesi tra una scopata e l'altra sul fiume, nel fienile, a letto. Sarebbe costretta a comunicarmi con lo sguardo quello che sappiamo entrambi: che stare bene non significa gran che, è solo il contrario di stare male. È come partire da meno venti e arrivare a zero, non ha niente a che fare con la felicità: la felicità sta a più mille, anche oltre. Aspetto che si rialzi e la guardo con tacito rimprovero.

- Che c'è? - mi chiede un po' stupita.

- Le devo la vita. Ero in pericolo, lo sai.

Mi guarda a sua volta senza parlare, con l'espressione di chi pensa "partivi da meno venti e ora sei a zero, ecco tutta la tua felicità". Evita signorilmente di rinfacciarmi l’autogol. Mi aspettavo qualcosa del genere e ho già pronta la prossima battuta:

- Comunque non era meno venti: era meno diecimila. 

Quello che non mi aspettavo è la sua replica, ferma e serena:

- Allora siamo pari.

Resto interdetto: questo significa che ha sofferto anche lei, e più di quanto pensassi. Rimuovo subito il pensiero, colto da un improvviso disagio. Comprendo perché il matrimonio è fallito: Antonia non poteva accettare che mio fratello fosse il suo livello zero. L’aveva salvata da me, ma questo non significava che potesse amarlo: poteva essergli riconoscente con la gratitudine di un cane sottratto al canile, ma questo non ha niente a che fare con l’amore ed è un’umiliazione che Michele non meritava. Mi si stringe lo stomaco al pensiero che forse non sto dimostrando ad Arianna altrettanto rispetto. Sento il bisogno di parlarne con qualcuno, sento il bisogno di vuotare il sacco e Antonia è l’unica persona al mondo che potrebbe capirmi. Ma lei si ferma i capelli sulla nuca e cambia argomento:

- E il servizio militare?

Provo un fremito di autentico odio.

- Sono esonerato. - rispondo seccamente - Il mio futuro suocero ha delle conoscenze.

- Tutto secondo le previsioni più ovvie.

- Non ho nulla contro l’ovvietà.

- Non si sarebbe detto.

- Non era questo che volevate tutti? Una specie di copia in tono minore di Michele.

C'è troppo acido in questa risposta e l'allusione a mio fratello è un altro passo falso.

- A proposito, come sta Michele?

- Perché mi fai domande ovvie? Mi risulta che vi siate visti ieri sera.

- Sì, viene spesso a trovarmi. Siamo rimasti in buoni rapporti.

Quanto buoni, Antonia? Sento il bisogno di ferirla.

- Comunque stasera non verrà: esce con Laura.

Mi accorgo di avere esagerato: una brace si accende sotto la fuliggine.

- Ti ho chiesto come sta, non con chi sta.

Finalmente un colpo è andato a segno, anche se non era quello sperato. Distolgo lo sguardo, passo in rassegna i fiori del giardino, le patate, i pomodori, il cipresso. Sento i suoi occhi posarsi su di me, sento i suoi pensieri come se li leggessi nella sua mente. Dov'è finita la splendida crisalide? Che razza di insetto sei diventato? Capelli corti, giacca e cravatta: ed è stata Arianna la levatrice di questa tignola. 

Improvvisamente sento una voce alle mie spalle:

- Scappa, Emmanuel, scappa più veloce che puoi. 

Mi volto di scatto: non è stata Antonia a pronunciare quelle parole, il suo viso è impassibile. Lei non ha sentito nulla, è chiaro. Sto impazzendo, sento le voci come Giovanna d'Arco. Mi passo una mano fra i capelli, sudando freddo.

- Chi ti ha dato il mio indirizzo? - mi chiede.

- Teresa.

- Lo immaginavo.

Come ben sappiamo non è vero, ma le cose sono andate in un modo così surreale che il nostro eroe non saprebbe come spiegargliele.

- Qualcosa non va, Emmanuel?

Finalmente! Finalmente ha pronunciato il mio nome: basta questo per inondarmi il cuore di dolcezza. Sollevo la testa e la guardo con gratitudine. 

- Scusa. Stavo seguendo il filo dei miei pensieri.

La conversazione ha preso una piega abbastanza confidenziale da giustificare la prossima domanda, che formulo con apparente disinvoltura:

- E Frédéric?

- Si è sposato.

La risposta mi spiazza completamente: non riesco a dissimulare lo stupore.

- Sposato? E con chi?

- Con un frigorifero di marca.

- Cioè?

- Una contessa svizzera.

- Non vive più in Italia?

- No, sta a Ginevra. Viene in Italia molto di rado.

La guardo provando una lontana pena, come l'eco di una sofferenza non mia.

- Non sembra che te ne importi molto.

Mi fissa con una strana vacuità, sfiorando il braccialetto che porta al polso.

- No, non me ne importa molto, in effetti.

- Credo di comprenderti.

- Io credo di no.

Sorride enigmatica. Resto in silenzio per qualche minuto e la osservo cercando di capire. 

Siede composta e dignitosa in mezzo alle macerie della sua vita come una madonna fra le rovine di una chiesa crollata. Mi guarda a sua volta, passando in rassegna i capelli corti, la giacca, la cravatta di seta, i pantaloni e le scarpe eleganti. Cosa resta del suo ragazzino, cosa resta di me?

Il vento solleva d'improvviso una folata di polvere e me la getta negli occhi: li chiudo istintivamente, lei si protende subito a ripararmi il viso con le mani. Una crepa m'incrina il cuore. Scuote via con delicatezza la sabbia dal colletto della mia giacca.

- Cominci ad avere l’ombra della barba sulle guance.

- L’ho fatta stamattina - rispondo contrariato - Dove?

- Qui.

Sfiora la superficie del mio viso indicando la zona incriminata. Un brivido mi percorre la spina dorsale.

- Hai le mani gelate.

- Tu invece sei caldissimo.

Non riesco a trattenermi: d'impulso afferro la sua mano. Cerca di ritirarla, ma la tengo ferma fra le mie. Se ne vergogna, è evidente: è rossa e un po' gonfia, sa di candeggina, ha la pelle screpolata, non c’è traccia di smalto sulle unghie corte, neppure quello trasparente che usava ogni tanto. 

Un pensiero mi folgora il cervello: dove sei stato per tutto questo tempo, imbecille? Se invece di lasciarti morire come un verme ti fossi comportato da uomo, questa mano sarebbe ancora quella che ricordi, bianca e delicata, quella che guardavi sfogliare le pagine dei tuoi libri di scuola, accarezzare Tegame e scarabocchiare in un quaderno i suoi inutili appunti.

Accarezzo quelle dita ruvide che sanno di detersivo e mi torna alla mente il profumo di giglio delle mani di Arianna, morbide e ben curate, con le unghie perfette laccate di rosa. 

Cosa sa di me mio fratello che io stesso non so?

Ascolto i tonfi del mio cuore, torturato da un dubbio atroce e nello stesso tempo alleggerito da una speranza inconfessabile. Lei non pare turbata da ciò che sta accadendo, anzi sorride con uno sguardo mansueto. Sembra non accorgersi di nulla, o forse sì, ma la porta è chiusa, è chiusa dall'interno. Aprimi maledizione aprimi, voglio vedere cosa c’è dietro.

All’improvviso un suono acuto e stridulo mi rimbalza a ondate nel cervello: forse il grido di un pappagallo strozzato, forse il miagolio di un gatto in calore, forse puttosto il vagito di un neonato. Sì, è decisamente il pianto di un neonato. Mi guardo intorno con un senso di confuso allarme cercando di capire da dove provenga, ma non ci sono case confinanti e quel suono è troppo vicino. Antonia libera la mano dalla mia stretta, si alza e si precipita in casa senza una parola di scusa, svincolandosi dal mio contatto.