Emmanuel - The broken diary - Quinta e ultima stagione - Fifth and Final Season
E' disponibile su Amazon l'intero romanzo di Emmanuel:
Sono inoltre disponibili su Audible, sotto forma di audiolibro, la prima e la seconda parte del romanzo di Emmanuel:
Emmanuel - Il diario interrotto - Parte I (Il vento dentro)
Emmanuel - Il diario interrotto - Parte II (La metafora perfetta)
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Il romanzo è tratto da un diario autentico, scritto da un adolescente di cui si sono perse le tracce anni fa, che chiameremo per convenzione Emmanuel; il libro è ambientato nei primi anni '90. Emmanuel è un adolescente irrequieto, incapace di accontentarsi del molto che possiede e con una personalità borderline che lo porterà a fare esperienze intense e disordinate, alla ricerca di un "senso". In questa sua ricerca travolgerà diversi personaggi, tra cui Antonia, la fidanzata del fratello Michele.
Gli interpreti sono due bravi attori-doppiatori, Elisa Gandolfi e Paolo Malgioglio.
Emmanuel - The broken diary - Quinta e ultima stagione - Fifth and Final Season
5.11. Niente che ti riguardi - Parte I (Emmanuel conosce suo figlio)
Il vagito di un neonato ha interrotto il momento magico che si era ricreato fra Emmanuel e Antonia: il ragazzo se la vede comparire davanti con un bambino in braccio.
Completamente sotto shock, Emmanuel cercherà di capire cosa sia successo e soprattutto chi sia il padre del piccolo, incontrando però una forte resistenza da parte di Antonia, che dice e non dice. La donna però, intenerita e commossa dalla sua presenza, cerca di trattenerlo ancora un po' con sé.
Gli interpreti sono Paolo Malgioglio e Elly (AI).
...
The cry of a newborn interrupted the magical moment that had been recreated between Emmanuel and Antonia: the boy sees her appear with a baby in her arms.
Completely shocked, he will try to understand what happened and above all who the baby's father is, but he will encounter strong resistance from Antonia, who says and does not say. However, the woman, touched and moved by his presence, tries to keep him with her a little longer.
The interpreters are Paolo Malgioglio and Elly (AI).
Niente che ti riguardi - Parte I
Sulle prime non capisco: poi tutto diventa assolutamente chiaro. Il silenzio lacerato dai vagiti è un attimo eterno di luce bianca intermittente, piena soltanto dei vortici delle nubi spinte dal vento.
Antonia riappare tenendo in braccio un bambino.
- Mio figlio - sorride, come se non fosse evidente.
E mentre la più insulsa delle madri gorgheggia fa’ ciao con la manina di’ ciao al signore, io continuo a domandarmi chi sia quell'idiota che mi ha riempito gli occhi di spilli. Abbandono il mio corpo inerte sulla sedia ed evaporo: le fluttuo intorno lambendo i contorni impenetrabili della sua maternità.
Quella voce che emette lallazioni preconsce da cerebrolesa non può essere lo stesso strumento che un tempo ha intonato l'arcano preludio all’abbraccio coniugale.
E così siamo alla katastrophé, il finale della tragedia.
Questa consapevolezza mi infonde all’improvviso una calma mortale. Prevengo il prossimo fa’ ciao con la manina con una domanda secca:
- Stai con un uomo?
- No - risponde sorpresa, come se quello strano fossi io.
- Posso fare qualcosa per te?
- Ti ringrazio, non abbiamo bisogno di nulla.
- Tua madre come l’ha presa?
Si stringe nelle spalle e sorride.
- Come vuoi che l’abbia presa? È diventata nonna, dopo tutto. Certo, le dispiace per la separazione, voleva bene a Michele, ma va matta per il suo nipotino.
La prossima domanda mi muore sulle labbra.
Una cosa almeno è evidente: il padre non è Michele. Conosco troppo bene mio fratello, per nessuna ragione al mondo si sarebbe comportato così se il figlio fosse stato suo: avrebbe mandato avanti il matrimonio anche a costo di penose finzioni. Con un sorriso inamidato mi chino sul piccolo, che, sprofondato nel nido del grembo materno, si succhia il pollice rivolgendomi uno sguardo perfettamente azzurro, anzi blu, molto serio per la sua età. Ha i capelli di un magnifico rosso tiziano.
- Come si chiama?
- Martino.
- Cioè, gli hai dato il nome di mio nonno?
- È un bel nome, trovo.
- È un magnifico bambino.
Sto per aggiungere “complimenti”, ma mi blocco sul ciglio del burrone, appena in tempo per evitare quel baratro di banalità.
- Sì, è davvero bello.
- Strano però: non trovo che ti assomigli molto. I capelli, certo. Poi forse la forma del naso e della bocca, ma per il resto deve aver preso dal padre.
Dio, che battuta maldestra. Non risponde, anzi incrocia le braccia sul petto. Tento di rimediare con un’osservazione frivola:
- Da grande sarà un vero rubacuori.
Raccoglie la provocazione ritorcendola contro di me:
- Non ci sono dubbi, se assomiglierà a suo padre.
Eppure basterebbe una semplice domanda: ma è troppo l'imbarazzo, troppa la paura. Incrocio a mia volta le braccia sul petto e mi rimetto a contemplare il cielo, sforzandomi di prendere le distanze da tutto. Le nuvole adesso corrono più veloci nell’aria ardente e il vento le ha quasi disfatto la crocchia sulla nuca; il bambino si aggrappa con le manine alle ciocche svolazzanti e lei gli sorride come una madonna di Raffaello; i capelli le si sciolgono sulle spalle intorno al viso improvvisamente ringiovanito.
Mi decido a fare una domanda importante:
- Quanti mesi ha?
- Cinque. Li ha compiuti la scorsa settimana. È molto precoce, sai? Sta già mettendo i primi dentini.
- I dentini? Ah già, si devono pur mettere i dentini, arrivati a un certo punto.
Sorride, divertita dalla mia idiozia. Il fatto è che il mio cervello è troppo distratto per poter produrre qualche affermazione di senso compiuto: la lavagna della mia mente fa i calcoli, cancella freneticamente e li rifà, e ottiene sempre lo stesso risultato. Impossibile: dovrebbe essere successo durante la luna di miele. Ma come ha potuto tradire Michele durante il viaggio di nozze? Provo un senso di solidarietà nei confronti di mio fratello: in fin dei conti siamo stati traditi entrambi. I miei sospetti cadono ovviamente su Frédéric. Sto cercando una perifrasi elegante per comunicarle quello che penso di lei, quando un pensiero improvviso mi folgora il cervello.
Rifaccio i calcoli lentamente, metodicamente, e il risultato che ottengo è sempre lo stesso. La fisso con uno smarrimento infinito; ma tutto il suo atteggiamento dice che non è niente che mi riguardi, e finisco per autoconvincermi che sia così, che sia la mia mente ad essere confusa, incapace di calcoli elementari. Nel frattempo lei si è completamente dimenticata di me: ha posato il bimbo sull’erba e si è messa a giocare con lui. La sua indifferenza in un momento per me così tragico mi colpisce come il più violento degli schiaffi. Mi alzo in piedi.
- Devo andare. S'è fatto tardi.
Lei si riscuote all'improvviso come da una specie di sogno e mi guarda con stupore, come se la mia reazione fosse imprevista e immotivata.
- Come, tardi? Sono solo le quattro. Rimani ancora un po’.
- Non posso, Antonia, i miei mi aspettano.
Finalmente sono riuscito a pronunciare il suo nome: mi scotta le labbra come una goccia di marmellata bollente. È terribile pronunciarlo nel momento dell'addio, perché questo è un addio, Antonia, non intendo tollerare oltre questa situazione degradante e offensiva. Mi avvio a passi rapidi verso l’uscita; lei mi segue. Sulla soglia ha un'esitazione: mi appoggia una mano sul braccio e mi parla con tono quasi supplichevole:
- Scusami Emmanuel, non ti ho nemmeno offerto da bere: posso rimediare in qualche modo?
A questo punto un uomo di carattere, un uomo vero, risponderebbe con un secco no. Io, naturalmente, dico di sì. Torniamo in giardino, lei sistema il bimbo nella carrozzina e me lo mette vicino. Sento il suo odore di latte. Il cuore mi pulsa in modo doloroso, diviso tra gioia e disperazione.
- Posso lasciartelo cinque minuti? Il tempo di prepararti una spremuta. Ti piace la spremuta?
- Certo.
Dovrebbe saperlo, cazzo.
- Arancia o pompelmo?
Detesto il pompelmo: non se lo ricorda più.
- Ah già, scusa, il pompelmo non ti piace.
Se lo ricorda.
Sulla soglia si volta a guardarci sorridendo:
- Siete bellissimi insieme.
Scompare nel buio. Mi prendo la testa tra le mani e appoggio i gomiti sul tavolo, in preda a un'angoscia inesprimibile; rimango così per qualche minuto, senza saper che fare, mentre il bambino mi fissa dalla carrozzina con quei suoi occhi blu così seri, succhiando pensosamente il suo ciuccio. Se non fosse assurdo direi che mi sento giudicato.
Improvvisamente sbuca da un cespuglio un grosso gatto color fuliggine con gli occhi giallo-verdi: riconosco subito il gatto Gino. Trotterella accanto a me e si strofina contro le mie gambe ronfando. Lui non mi ha dimenticato, almeno: lo prendo in braccio e lo accarezzo sussurrandogli che è diventato proprio un bel gattone; lui alza la coda, come fanno sempre i gatti per avvertirci che il gatto è finito, e continua a ronfare sonoramente. La commozione mi assale a tradimento, mi mordo le labbra a sangue per non piangere. Dopo qualche minuto Gino salta agilmente nella carrozzina e si acciambella ai piedi del bambino. Sollevo lo sguardo ad osservare il piccolo: è un bel bambino e sembra di buon carattere. Gli sorrido per la prima volta avvicinando il mio volto al suo: mi molla un ceffone con la manina aperta. Un ceffone in piena regola, non un buffetto. Mi tiro indietro stupito: lui si strappa il ciuccio dalla bocca e scoppia a ridere.
- Gli piaci: guarda come ride - dice Antonia di ritorno.
- Insomma, mica tanto: mi ha appena mollato un ceffone.
- Un ceffone? Ma figurati. Ti avrà dato una piccola pacca.
- Ti dico che era un ceffone.
- Esagerato. Ecco la tua spremuta d'arancia.
Mi porge il bicchiere.
- Grazie.
Bevo volentieri la bevanda rinfrescante.
- Hai ancora il gatto Gino - le dico.
- Certo. Come avrei potuto sbarazzarmi di lui?
Già: come avrebbe potuto sbarazzarsi di lui?
Di punto in bianco il piccolo incomincia a scalpitare e a piagnucolare nervosamente.
- Abbi pazienza, - mi dice lei con un sospiro - è ora di allattarlo. Aspettami dieci minuti, torno subito.
Faccio segno di sì con la testa, mentre una sorsata amarissima mi va di traverso provocandomi un attacco di tosse.
Allattarlo?
Fino a questo punto? Fino a questo punto è precipitata nella materia?
Mi torna alla mente una scena che avevo visto da bambino nella casa di campagna del nonno: una grossa femmina di ragno portava sulla schiena i piccoli, mentre questi succhiavano il suo ventre come un acino d’uva: la sua pelle si raggrinziva pian piano, svuotata del contenuto, e lei, paziente, si lasciava mangiare viva dagli esseri disgustosi e crudeli che aveva partorito. Il senso di quella scena mi era risultato così inaccettabile che avevo schiacciato sotto la suola della scarpa tutte quelle creature immonde.
Il pensiero di lei che sbottona il camicione e diventa cibo per il bambino, sorreggendogli la testolina, mi è intollerabile. Il disgusto si mescola dentro di me con una sorda gelosia. Cerco di spiegarne a me stesso il senso e sono costretto a tradurlo in un pensiero di sconfortante puerilità: da tutti i punti di vista io sono stato meno importante per lei di quel piccolo usurpatore: in fin dei conti, per me non è mai riuscita a produrre latte.
Mi alzo e faccio il giro del giardino, contando e ricontando il numero dei miei passi, raccogliendo i miei pensieri sparsi nella ghiaia come Pollicino. Ma non c’è più il sentiero per tornare da lei, il rivale è troppo forte questa volta. Qualunque sia la ragione per cui è successo, quel bambino sono io. Per questo è felice, per questo non sente la mia mancanza. Ma se voleva me, se mi voleva fino a questo punto, allora perché?
Mi travolge di colpo il paradosso. Resto immobile per qualche minuto, con il sangue che mi martella nelle tempie, cercando di capire cosa stia succedendo.
In questa storia c’è qualcosa che non va: è tutto troppo fasullo per essere vero. Sono finito in un romanzo di Kafka, anzi, peggio: qui manca anche la dignità dell'incubo, la logica illogica kafkiana; questa storia assomiglia piuttosto a uno di quegli insulsi film hollywoodiani in cui il regista ha previsto un lieto fine per tutti: era facile, bastava eliminare dal cast il protagonista. Anche per la mia controfigura il copione ha previsto un lieto fine: la storia con Arianna. Ma quel tizio che tutti chiamano con il mio nome non sono io: io sono questa cosa piena di stupore e di dolore che non capisce cosa stia succedendo e non sa più come si chiama.
Una cosa comunque è certa: sono tutti felici della mia scomparsa, a cominciare da Antonia. L'evidenza di questo fatto mi è chiara fino a procurarmi dolore fisico. Io sono morto e al mio posto c’è questo personaggio che recita la mia parte, anche piuttosto male devo dire, però ha successo e tutti lo applaudono. Ma perché tutti vogliono farmi credere che questa stupida finzione sia la realtà? Tutti tranne forse mio fratello, che mi parla per enigmi come gli oracoli invece di dirmi le cose come stanno. È tutto inverosimile: Antonia che esclude che io c’entri qualcosa con il bambino, Arianna che non ne sa niente, i miei che sembrano colti da amnesia selettiva.
Cerco di trovare una spiegazione logica: forse sono diventato pazzo, forse lo sono sempre stato e loro lo sanno, per questo mi assecondano: Antonia mi tratta con la benevola indulgenza dovuta a un mentecatto, mio fratello tenta di esaudire gli ultimi desideri di un folle, Arianna non è un angelo, non mi è apparsa davanti per caso: è un'infermiera della clinica psichiatrica in cui sono rinchiuso.
Arianna, già. Perché la sento così lontana?
Appoggio la schiena al tronco del cipresso con un suono confuso nel cervello.
Finalmente lei ritorna senza il bambino, emanando un lieve odore di caseificio. Il camicione è ancora sbottonato. Intravedo un seno terribilmente diverso da quello che avevo in mente: io ricordavo due coppe di champagne piccole e sode, ora quella che vedo è una quarta misura abbondante, decisamente troppo morbida. Si riabbottona il camicione con assoluta indifferenza: non prova neppure pudore o imbarazzo a mostrarsi di fronte a me seminuda, io non sono più niente per lei.
- S'è addormentato - dice, e sorride. Che cazzo ha da sorridere sempre?
La guardo senza muovermi. È così distratta da non accorgersi neppure che la mia bocca trema nello sforzo di non piangere. Domino l’emozione e riprendo con tono freddo:
- Chi provvede a voi? Voglio dire, finché non sarai in grado di lavorare di nuovo.
- Tuo fratello. È un uomo straordinario Michele, non sa portare rancore: avrebbe voluto comprarci un attico in collina, ma noi stiamo bene qui, io e il piccolino.
Provo un intenso moto di ammirazione per mio fratello e un altrettanto intenso conato di vomito.
- Tuo fratello ha la capacità di giocarsi la partita fino in fondo, - insiste lei - È tipico dei veri campioni: è nato vincente.
Devo fare appello a tutte le risorse della mia razionalità per elaborare una risposta in grado di spiegare quello che sento senza risultare inutilmente polemico e senza farle notare che gli attuali sviluppi della vicenda non configurano esattamente una situazione da vincente: non più di quanto lo sia la mia, in ogni caso.
- Sì, è vero: a mio fratello piace vincere - esordisco, con una calma che mi stupisce. Attendo la sua replica, sapendo già che sarà stupida e/o infantile. Infatti risponde:
- Non c'è niente di male in questo.
- Certamente, - ammetto con indulgenza - anzi, ti dirò, nutro sincera stima per mio fratello, soprattutto da qualche tempo a questa parte.
Faccio una pausa e prendo un respiro profondo.
- Però vedi, Antonia, i vincenti amano vincere. Non si tratta esattamente di amore, ma di una forma di autogratificazione: orgoglio, capisci? Amor proprio. Non sanno perdere. Bisogna essere dei perdenti per amare in un certo modo.
La sua risposta mi spiazza completamente:
- Non c'è nessun bisogno di amare in quel certo modo.
Approfitta del mio silenzio per mettere a segno un altro colpo basso:
- Del resto, anche in termini platonici è sufficiente averlo sperimentato una sola volta nella vita.
Ha appena ammesso, con assoluta indifferenza, che io sono stato il suo unico vero amore, quello che capita una sola volta nella vita, e che non sono più necessario, dato che l’esperienza è già stata fatta. Trovo ancora la forza di contraddirla con garbata fermezza.
- No, in termini platonici non è affatto così: me lo hai spiegato tu stessa. Una volta innescato il processo dell'anamnesi, non è che uno può rituffarsi nella materia e far finta di niente. O meglio, può, ma non è esattamente il percorso indicato da Platone: a cosa serve avere fatto l’esperienza, se poi uno se ne frega e torna a vivere come se non fosse successo niente? Allora tanto valeva restare immersi nella materia.
Mi risponde con tono assorto, come se parlasse a se stessa:
- Non è rimasto tutto come prima. Anzi, l’esatto contrario: è cambiato tutto per me, adesso.
- In che senso, scusa?
- Se ti dicessi che l'universo maschile non m'interessa più?
- L'universo maschile in generale?
- Sì, in generale.
Sconcertato, le chiedo:
- Non è un po' presto?
- Sì, forse. Credo di avere bruciato le tappe. D'altra parte Platone parla della necessità di amare, non di amare delle persone dell’altro sesso.
Esito, poi decido di essere sincero.
- E se ti dicessi che nemmeno a me interessa più l'universo femminile?
Sorride.
- Per te è davvero un po' troppo presto, non credi?
- No, non credo. Mi pare che ne avessimo già parlato in qualche vita precedente, o ricordo male?
- No, ricordi bene. T’interessa di nuovo quello maschile?
- Non sono gay.
- Mi pare di ricordare che tu lo sia stato in qualche momento della tua vita.
- Non più, non adesso.
- Non ci sarebbe niente di male neanche in questo. Solo, mi dispiacerebbe un po’ per Arianna.
Taglio corto:
- Comunque, Antonia, io non sono l'universo maschile: sono Emmanuel.
Sorride, questa volta con leggera ironia:
- Direi che non ha più senso parlarne, a giudicare dalle scelte che hai fatto.
Le scelte che ho fatto.
Una sorda indignazione ribolle dentro di me: mi accorgo di avere collezionato una serie di autogol. Sto per sbottare e urlarle in faccia che è stata lei a costringermi a fare quelle scelte, ma non posso rischiare di offenderla; questa è casa sua, io sono suo ospite, può mettermi alla porta quando vuole. Per la prima volta mi rendo conto, non senza stupore, di quanto fosse diverso incontrarla in casa mia, dove inconsciamente le facevo pesare la mia posizione di superiorità, oppure nel fienile, per così dire in campo neutro. Ora sto giocando in trasferta ed è lei ad avere il controllo del campo. Devo trovare il modo di calmarmi per non essere costretto ad andarmene. Non voglio andarmene, cazzo.
Cambio improvvisamente argomento.
- Il giardino ha bisogno di una ripassata. Se vuoi ti taglio l'erba.
- Sei molto gentile, ma non è il caso che ti disturbi.
- Non mi disturba affatto, lo faccio volentieri.
- Da quando ti dedichi al giardinaggio?
- È una cosa che faccio spesso da Arianna. Poi mi sono sempre piaciute le piante, lo sai: sto imparando anche a potarle. So potare le rose, i peri e i meli.
- Quella ragazza ti ha insegnato un sacco di cose.
- Già, e tutte di vitale importanza.
Non coglie l'ironia. Mi sorride con dolcezza:
- Preferisco che resti qui a farmi compagnia, se non ti dispiace. Vuoi?
Sento un groppo alla gola.
- Sì Antonia, voglio.
Sto di nuovo per piangere. Conto fino a cento, visualizzo greggi di pecore al pascolo con tanto di cani e pastorelli arcadici, recito mentalmente un sonetto eteròclito di Pascoli, e finalmente riesco a dominare l'emozione. Lei si volta a cercare qualcosa dietro la sedia.
- Ti è caduto qualcosa? Posso aiutarti?
- No, grazie, stavo solo cercando il cestino da lavoro.
Tira fuori un piccolo cestino di vimini foderato di stoffa a quadretti bianchi e rossi, orlato di pizzo. Si muove con un certo impaccio, com’è tipico di chi ha qualche chilo di troppo addosso. Questo mi fa sorridere e mi suscita un’improvvisa tenerezza. Mi appoggio allo schienale ed osservo con calma i suoi gesti.