Emmanuel - The broken diary - Quinta e ultima stagione - Fifth and Final Season

5.12. Niente che ti riguardi - Parte II (Di nuovo fra le braccia di Antonia)

Antonia Del Monaco Season 5 Episode 12

Emmanuel, dapprima in grave imbarazzo di fronte alla "nuova" Antonia casalinga e madre, a poco a poco si scioglie e cede al suo gioco ironico e sottilmente seduttivo, fino a ritrovarsi letteralmente messo a nudo da lei. Alla fine l'emozione ha il sopravvento e il ragazzo, in stato confusionale, si ritrova nuovamente fra le braccia del suo unico grande amore.
Gli interpreti sono Paolo Malgioglio e Elisa Gandolfi.
La colonna sonora comprende una cover di "This Is The Day" di Captain Beefheart.
...
Emmanuel, initially very embarrassed by the "new" Antonia, housewife and mother, gradually loosens up and gives in to her ironic and subtly seductive game, until he finds himself literally laid bare by her. In the end, emotion gets the better of him and the boy, in a confused state, finds himself once again in the arms of his one great love.
The performers are Paolo Malgioglio and Elisa Gandolfi.
The soundtrack includes a cover of "This Is The Day" by Captain Beefheart.

Niente che ti riguardi - Parte II

Intanto lei ha tirato fuori dal cestino da lavoro un oggetto bianco rettangolare non meglio identificato, un gomitolo e un uncinetto.

- Ti dà fastidio se mentre parliamo continuo il lavoro che stavo facendo?

- No, non mi dà affatto fastidio.

Si mette a lavorare con gesti veloci e, mi pare, abbastanza precisi.

- Sto imparando a fare dei piccoli lavori a maglia e all'uncinetto, - mi spiega - così passo il tempo e risparmio. E poi mi piace fare delle cose per il bambino, è molto meglio che comprarle già fatte. Non sono ancora brava, vedi? Questo bordo per esempio è un po' storto; ma sto imparando in fretta: mia madre mi dà lezioni una volta alla settimana. Domani viene qui e proviamo a fare un rivestimento per il divano del soggiorno: ha scelto una stoffa bellissima, bianca con le mimose gialle.

- Le mimose sono sempre gialle - puntualizzo con garbata fermezza.

- Già, è vero.

- Questa che stai facendo cos'è? - chiedo atono.

- Una copertina, non vedi? - me la sventola davanti agli occhi e ricomincia a lavorare. No, non avrei detto che quella specie di trapezio informe fosse destinato a diventare una copertina.

- È di puro cotone, - prosegue lei - Martino non sopporta il sintetico a contatto con la pelle: quando suda gli vengono subito le bolle. 

- Anche a lui?

- Sì, è allergico, proprio come te. Mi piacerebbe aggiungere qualche disegno sul bianco, ma non so cosa.

- Che ne diresti di paperi azzurri?

- Vuoi dire papaveri azzurri?

Sospiro alzando gli occhi al cielo: santa pazienza, ma quanto è diventata ottusa?

- Antonia, - le dico con tono educato - i papaveri in genere sono rossi, tranne quelli da oppio che sono di diversi colori: arancioni, ma anche rosa, violetti e perfino bianchi. Sono i fiordalisi che sono azzurri.

- Ne sai di papaveri, eh?

- Ne so.

- E come capita che ne sai?

Non resisto alla tentazione di correggerle il congiuntivo.

- Che ne sappia. 

Sorride leggermente.

- D’accordo, come capita che tu ne sappia?

- Studio botanica a tempo perso. 

- Oh. E come mai?

- Così, mi va di farlo. Comunque ho detto paperi.

- Se è per questo, i paperi in genere sono bianchi. 

Oh Dio, questa nostra conversazione: il nonsense pieno di leggerezza tipico dei nostri discorsi di un tempo… All'improvviso mi rivedo in piedi sulla sponda del torrente, intento a lanciare sassi nell'acqua, mentre lei mi guarda con un sorriso accarezzando Tegame e io le chiedo che aspetto fisico avesse Alcibiade. Mi rendo conto che tutto questo mi è mancato da morire.

- Ad ogni modo perché no? - riprende lei - Paperi azzurri, potrebbe essere un'idea.

Ricomincia a lavorare senza dare segno di aver colto il riferimento alla mia biancheria intima. Sorrido, nonostante tutto. Un attimo dopo realizzo che i paperi azzurri non sono per me e le fauci della gelosia affondano di nuovo le zanne nel mio cuore.

Lei getta un'occhiata distratta al mio abbigliamento.

- Hai la camicia stropicciata.

- Sì, lo so, - mi giustifico - ho guidato con questo caldo terribile e nonostante l'aria condizionata ho sudato. 

- Ho detto stropicciata, non sudata.

- È colpa della cintura di sicurezza.

- Indossi la cintura di sicurezza per queste strade di campagna? Io non la metto mai.

- In genere no, ma c'era una pattuglia di carabinieri.

- Toglitela, dai, te la stiro.

- Non è il caso, ci penserà Teresa.

- Lo faccio volentieri.

- Ma è tutta sudata, non si stira la biancheria sudata.

- In genere no, ma in questo caso faremo un'eccezione. E poi lo sai che mi piace l'odore del tuo sudore.

Sono sorpreso, ammirato e nel contempo disgustato (un mix orribile) dalla naturalezza con cui ammette di ricordarsi dei nostri trascorsi sessuali; ne parla come si parla del più e del meno, mentre sferruzza imperturbabile la sua copertina destinata ad ospitare i miei paperi azzurri. Speravo che almeno non se ne ricordasse più, che una specie di amnesia avesse cancellato dalla sua mente quei momenti di demenziale esaltazione: questo giustificherebbe l'assurda serenità che prova nel rivedermi. E invece no, se ne ricorda benissimo. 

Mi chiedo come sono finito in questa farsa. La mia vita non doveva andare così: c'erano tutti i presupposti perché fosse qualcosa di serio, e invece eccomi qui a interpretare il ruolo di un idiota in un tragicomico vaudeville. Sento il mio cervello torcersi nello sforzo di capire. Taccio, non so che dire. È ancora lei a rompere il silenzio.

- Cos'hai sotto?

- Una canottiera di cotone.

- Allora è perfetto: indosserai la giacca sopra la canottiera. 

- Ma è senza maniche.

- Meglio, hai delle belle braccia. Toglitela, dai.

Mi sbottono la camicia con dita esitanti: ho l'impressione di essere sotto esame, e sebbene io sappia di poterlo superare a pieni voti, avendo recuperato una discreta forma fisica, mi sento in imbarazzo. Me la sfilo e gliela porgo con una strana timidezza. 

- Benissimo, te la stiro più tardi. 

Resto praticamente a torso nudo, in canottiera e pantaloni eleganti di lino. Mi sento indifeso: infilo subito la giacca, come per proteggermi dal suo sguardo.

- Vuoi darmi anche i pantaloni? - chiede lei, senza ironia.

- No, grazie.

Rimanere in mutande, canottiera e calzini davanti a lei sarebbe veramente eccessivo.

- Come vuoi - dice, riponendo la mia camicia nel cestino e tornando a concentrarsi sul suo lavoro.

È chiaro che sta cercando di mettermi in imbarazzo. Non capisco perché lo faccia e capisco ancor meno il mio stato d’animo: a sedici anni non provavo il minimo imbarazzo a spogliarmi sotto i suoi occhi e a tuffarmi nudo nel torrente; e allora perché adesso mi sento così a disagio? A maggior ragione perché Antonia conosce bene ogni parte del mio corpo.

Per un attimo mi domando se il mio insolito pudore non sia dovuto ad una sorta di fedeltà nei confronti di Arianna, ma scarto subito l'ipotesi. Se mai è vero il contrario: è proprio con Arianna che ho sempre provato pudore, un senso inconfessato di violazione e di tradimento di qualcosa di intimo, troppo intimo per poter essere condiviso con lei. Il mio corpo non è mai stato veramente suo. In realtà, da più di un anno a questa parte, il mio corpo non appartiene a nessuno: è come se io fossi stato espropriato della mia fisicità, ripetutamente violentato, costretto a separare l'anima dal corpo con una brutale lacerazione; alienarmi dal mio corpo è l'unico mezzo di difesa che sono riuscito ad escogitare per sopravvivere. Devo dire che non è poi così male, una volta che uno ci fa l'abitudine: lo si nutre, lo si cura per quanto possibile, lo si usa per vivere, per lavorare, per andare a spasso, per prendere il sole e per dare piacere a qualcun altro, evitando per quanto possibile di lasciarsi coinvolgere in quel piacere. Come una macchina, insomma, una onesta macchina che fa il suo dovere e che ha bisogno di un po’ di manutenzione.

Ma ora sono qui, sotto gli occhi dell'unica donna alla quale ho concesso la mia anima e il mio corpo, e lei mi sta smontando pezzo per pezzo. Mi rendo conto all'improvviso che si tratta di una strategia per smascherarmi: la mia nudità fisica serve per mettere a nudo la mia finzione. Decido improvvisamente di impedirglielo: le dico che ho bisogno di andare in bagno e mi allontano da lei per una decina di minuti.

Dopo essermi sciacquato il viso, asciugandolo con una salvietta di cotone immacolata che odora di lavanda, ed aver constatato nel suo antiquato specchio con la cornice di legno che il mio aspetto, nonostante tutto, è decoroso, torno a sedermi al mio posto. Mi sento più calmo. Lei alza per un attimo lo sguardo dal suo lavoro e le sfugge un mezzo sorriso.

- Sei molto sexy con la giacca e la cravatta sulla pelle nuda, sai?

- La cravatta l'ho tolta - la correggo con tono neutro - e la giacca non è sulla pelle nuda: è sulla canottiera.

- Cos'è quel segno che hai sulla mano?

- Mentre tornavo qui sono passato a salutare Martino e volevo fargli una carezza, ma mi ha morso.

- Allora non dorme.

- No, ma è tranquillo: guarda la giostrina che gli hai appeso sopra la culla. Sembra che gli piaccia molto. E poi c’è Gino con lui.

- Mi dispiace che ti abbia morso.

- Non è niente. 

Lei abbassa gli occhi sul suo lavoro. L'uncinetto ricomincia il suo saliscendi altalenante, e io mi sorprendo a domandarmi all'improvviso se in quel microcosmo fatto di piccole cose quotidiane, fiorellini nel giardino, copertine all'uncinetto, gatti sul divano, bambini nella culla, camicie da stirare, pranzetti da preparare, non possa esserci un posticino anche per me. In fin dei conti non occupo molto spazio, sono alto solo un metro e ottantacinque e all'occorrenza so restringermi. Chissà, forse sarebbe dolce sparire in un abbraccio che sa di latte e soffritto di cipolla, accoccolato sul divano vicino al gatto che ronfa, avvolto in una copertina morbida con la testa sulle sue ginocchia, fingendo di guardare alla tv un quiz idiota. Sarebbe un altro modo di perdersi, come quella volta nel bosco di castagni. Formulo distintamente un pensiero: non c'è bisogno di sesso per perdersi, basta essere in braccio a qualcuno che ti sferruzza in testa una striscia informe di qualcosa che ti fa un delizioso solletico sul collo.

L'intensità del desiderio che provo mi spaventa, mi sento il cuore in gola e la testa in fiamme: un anno, un anno intero di ricostruzione di un'identità sta andando in frantumi in pochi minuti solo perché una donna in sovrappeso lavora all’uncinetto davanti a me lanciando ogni tanto uno sguardo divertito al mio corpo seminudo. Evidentemente non era gran che questa identità, ma in questo momento è l’unica che ho e non posso permettermi di perderla. Oppongo una fiera resistenza, ma dopo qualche minuto abbasso le difese, rendendomi conto che non hanno senso: il desiderio di annullarmi è fortissimo, mi provoca quasi piacere fisico. Mi ci abbandono ad occhi chiusi per qualche meraviglioso istante. 

La sua voce mi risveglia brutalmente dalla mia beatitudine.

- Hai delle belle spalle, lo sai? Ma forse te l'avevo già detto. 

Perché mi ha richiamato alla realtà invece di lasciarmi galleggiare nel mio paradiso amniotico? E poi lo sa perfettamente che me lo aveva già detto.

- Sì, me l'avevi già detto. Almeno una dozzina di volte, in svariate circostanze che non sto ad elencare.

- Arianna è una ragazza fortunata.

- Molto fortunata: cosa c’è di meglio di un ragazzo con delle belle spalle? Del resto sono fortunato anch'io, lei ha delle belle tette. 

- Bisogna imparare ad accontentarsi di quello che si ha.

- Non concordo, ma suppongo che ne abbiamo già parlato. 

- Forse, mi pare di sì. Fra poco ti stiro la camicia.

La sua risposta evasiva mi irrita.

- Da quando hai imparato a stirare le camicie maschili? Dicevi che ti faceva schifo stirare le camicie.

- Be’, sai, non c'è molta differenza tra una camicia maschile e una femminile: la tecnica è la stessa. Per prima cosa si stirano il carré e il colletto, il resto viene di conseguenza.

- Ti ringrazio di queste informazioni, che mi saranno preziosissime se mai mi capiterà di stirarmi una camicia da solo, ma la mia domanda non verteva sulla tecnica della stiratura.

- Cioè?

- Cioè, che bisogno hai di stirare le camicie maschili? 

- È un'altra delle cose che mi ha insegnato mia madre. 

Il mio tono si fa tagliente.

- Forse non mi sono spiegato: che bisogno hai di stirare le camicie maschili, se non stai con un uomo?

Alza le spalle.

- Bisogna saper fare un po’ di tutto nella vita.

Muro di gomma. La mia irritazione cresce, impotente come una mosca che continua a sbattere contro lo stesso vetro.

- E il professor Mostarda? - chiedo all'improvviso, con una nota stridula nella voce.

- Chi?

- Come chi? Quello per cui avresti lavorato anche gratis, non ricordi?

- Ah sì, lui. Non so che fine abbia fatto.

- Cercalo. Cercalo sulla guida del telefono, cercalo dove ti pare, da qualche parte lo troverai.

- Ma perché dovrei, scusa?

Sto cercando le parole giuste per esprimere un concetto offensivo: perché non c'è altro mezzo per salvarti dalla degradazione in cui sei precipitata, ex-amore mio. Sto per elaborare una perifrasi decente, quando lei mi previene:

- Non eri tu quello che diceva che sono ideali da talpa?

- Sì, ero io.

- E avevi ragione.

La contraddico con durezza:

- No, non avevo ragione, non avevo affatto ragione, e lo sai. Ero un coglione sedicenne che non sa di cosa parla. 

La fisso con uno sguardo pieno di risentimento. Abbassa gli occhi e non dice niente. Il resto del discorso lo tengo per me, perché non posso dirle quello che sto pensando.

Solo quello che non ha senso ha un senso: il senso lo trova in se stesso. È l'unica ribellione possibile alle regole del Demiurgo. 

E adesso finalmente mi ricordo dove ti ho incontrata. Ero allo scriptorium di Fleury e facevo l'unica cosa che avesse un senso in quell'epoca di barbarie: ricopiavo Petronio; tu eri quell'apprendista dai lunghi capelli rossi appena arrivato dall'estremo Nord, schivo e introverso, che osservava il lavoro del maestro senza alzare dal manoscritto i suoi occhi grigioverdi, senza dire una parola. Poi per un attimo li avevi alzati e subito riabbassati incontrando i miei. Quello sguardo mi aveva colpito come un giavellotto. Non ricordo esattamente il tuo nome, ma credo che ti chiamassi Antaine. È possibile che all'epoca fossimo gay. 

Tento di riprendere la conversazione, ma lei solleva la mano a raccogliere i capelli sulla nuca; all’improvviso qualcosa mi colpisce: il braccialetto che brilla al suo polso. È un Cartier, i diamanti sono veri. Non ha mai portato gioielli costosi, non se li può permettere: è il regalo di un uomo ricco, quello per cui ha imparato a stirare le camicie.

E di colpo non so più fingere: lei mi legge nel volto contratto disgusto ed odio. 

Ti odio mi odio per averti amata, e la tua anima dov'è, la tua anima dov'è, io stavo per morire per te, per questa cosa inutile, la tua biga è sbandata e tu sei sepolta sotto le macerie amore, rotolerai sotto terra per novemila anni e io non posso aspettarti per tutto questo tempo, ti aspettavo da sempre alla stazione sbagliata, ma cosa puoi capire tu squallida vacca da monta stupida vacca da riproduzione, se l'avessi saputo prima ti avrei strangolata mentre facevamo l'amore, oh sì che l'avrei fatto amore mio, se questo era l'unico modo per salvarti da te stessa.

Lei comprende che sto per dire qualcosa di irrimediabile: posa il lavoro nel cestino e si porta l’indice alle labbra nel signum harpocraticum. Per qualche inspiegabile cortocircuito mentale mi viene in mente il Giove pittore di farfalle di Dosso Dossi: da questo particolare comprendo che sono uscito di senno. Respiro affannosamente nel tentativo di ossigenare il cervello, ma l’iperventilazione peggiora le cose: sento che sto per svenire. Antonia se ne accorge e mi tende la mano:

- Vieni qui.

Accolgo il suo invito senza esitazione. Vengo, anzi crollo con le ginocchia nell’erba, dimentico dei pantaloni eleganti di lino color crema. Mi aggrappo a lei come un naufrago a una boa, una grassa morbida boa a forma di mucca. Sprofondo con il viso nel suo tiepido e irriconoscibile seno e di colpo mi sento a casa. Mentre lei mi culla fra le braccia salgo con le labbra lungo il suo collo e lo sfioro mugolando al suo orecchio una specie di canzoncina prenatale. Ad un tratto intravedo alle sue spalle, sul muretto, uno stereo portatile; pur in quello stato di narcosi, non riesco a fare a meno di domandarmi cosa diavolo ascolti: forse qualche ninna nanna per il bambino, che altro? Antonia non è in grado di ascoltare musica da sola, non è in grado di ascoltare musica senza di me: io sono l'unico tramite tra lei e la musica, che è quanto dire tra lei e la vita, tant'è vero che senza di me è diventata questa cosa sciatta e informe che mi piace tanto lo stesso. È sempre stato così, escludo che le cose possano essere cambiate, che qualcun altro possa averle fatto ascoltare musica in mia assenza. E se ci fosse, lo ucciderei.

- Antonia...

Mi accarezza i capelli.

- Dimmi.

- Posso mettere un disco?

Esita, poi mi risponde:

- Meglio di no, Emmanuel.

- No, non preoccuparti, non è come pensi, non è per quello.

- Il mio stereo portatile non è gran che - tenta di giustificarsi lei, memore dell'effetto che le ha sempre fatto ascoltare la musica con me.

- Non è un disco qualsiasi. Ti prego.

Esita. Respiro contro il suo seno che sa di latte cagliato, dominando la tentazione di infilare il naso sotto la stoffa per scoprire quali altri guai abbia combinato il piccolo intruso dal morso facile. Scosto con le labbra i lembi del camicione senza andare oltre e la lascio lì ad aspettare qualcosa che non farò, così impara a dire che non ha più nessuna importanza amare "in quel certo modo". Sento che sta per cedere.

- E va bene, mettilo.

Allungo il braccio verso il vecchio portatile ed inserisco nel lettore un cd che porto in tasca da qualche giorno, non so nemmeno io perché. Le note di This Is The Day si diffondono nell'aria del giardino: non la riascoltavo da quella volta con Antonio. Mi assale una commozione così profonda che gli occhi mi si riempiono di lacrime. Ogni tentazione erotica scompare, spazzata via da un'ondata di amarissimo rimpianto. Era la musica che avevo scelto per il nostro matrimonio, ma non posso dirglielo. Immergo il viso nel suo ventre cercando di nascondere i singhiozzi, ma lei se ne accorge e si china su di me.

- Che bella questa canzone - mi sussurra all'orecchio, e io faccio segno di sì con la testa senza riuscire a parlare. Le mie lacrime scorrono senza freni bagnando il camicione a fiori. Finalmente posso ascoltarla con lei, anche se in condizioni tanto diverse da quelle che avevo sognato. Finalmente ogni accordo, ogni singola nota cade al posto giusto. Lei la capisce la bellezza, io gliela comunico e lei me la restituisce moltiplicata per mille: ecco perché lei, ecco perché solo lei. 

Mentre mi culla dice con quella esitazione che ha sempre avuto in campo musicale, timorosa di dire una sciocchezza: - Sbaglio o c'è un po’ di ironia nel testo? - Faccio di nuovo segno di sì, le circondo la vita con le braccia e sorrido nel suo grembo. Mesi di gelo si sciolgono al suo contatto. Era ovvio che lo capisse, perché sono io che gliel’ho comunicato: lei capisce tutto di me perché, nonostante se ne sia dimenticata, non può fare a meno di amarmi.

- Non la suoni più la chitarra? - mi chiede ad un tratto. Faccio segno di no con la testa e un dolore acuto mi trafigge lo sterno: solo adesso capisco quanto mi sia mancato strimpellare le mie canzoni. 

- Dovresti ricominciare, eri molto bravo - mi dice lei, incapace di comprendere la mia mediocrità, o forse capace di vedere qualcosa di più grande al di là di essa. Mi ero dimenticato che è proprio per questo che la amavo. 

- Accarezzami le spalle, visto che ti piacciono tanto - sussurro fra le lacrime. 

Sorride e mi accarezza le braccia e le spalle con le sue mani un po' ruvide.

Il vento africano spazza via le nuvole e gli ultimi residui di menzogna. Lei continua ad accarezzarmi e nella mia mente lampeggia una luce blu intermittente che prelude al collasso nervoso. Provo una felicità perfetta: finalmente, finalmente sto morendo fra le braccia della sola donna che io abbia mai amato.

Fate partire i titoli di coda, scrivete the end, scrivetelo adesso.