Emmanuel - The broken diary - Fourth Season

3.5. Un cavallo bianco - feat. Linkin Park (Antonia vuole un bambino)

January 06, 2024 Antonia Del Monaco Season 3 Episode 5
3.5. Un cavallo bianco - feat. Linkin Park (Antonia vuole un bambino)
Emmanuel - The broken diary - Fourth Season
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Emmanuel - The broken diary - Fourth Season
3.5. Un cavallo bianco - feat. Linkin Park (Antonia vuole un bambino)
Jan 06, 2024 Season 3 Episode 5
Antonia Del Monaco

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Con questo episodio Emmanuel fa il suo ingresso in una dimensione tra il platonico e il medioevale, impegnandosi con tutte le sue forze in un tentativo di risurrezione dalla materialità in cui è precipitato, travolgendo con sé anche Antonia. 
Di qui in avanti ogni suo sforzo sarà rivolto a trovare una dimensione spirituale nella quale il suo rapporto con la donna possa raggiungere un difficile equilibrio in grado di resistere al tempo. 
Gli interpreti sono Paolo Malgioglio e Elisa Gandolfi. 
Nel corso dell'episodio potete ascoltare un brano e una cover (eseguita da Yvonne Jeucken) di "Phantasmagoria in Two" di Tim Buckley e  versioni in stile medioevale di "Numb" dei Linkin Park. 
... 
With this episode Emmanuel enters a  dimension between the Platonic and the medieval, committing himself with all his strength in an attempt at resurrection from the materiality into which he has fallen, also overwhelming Antonia with him.
From now on, his every effort will be aimed at finding a spiritual dimension in which his relationship with the woman can reach a difficult balance capable of withstanding time.
The interpreters are Paolo Malgioglio and Elisa Gandolfi.
Throughout the episode you can hear a song and a cover (performed by Yvonne Jeucken) of Tim Buckley's "Phantasmagoria in Two" and medieval-style versions of Linkin Park's "Numb". 

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Con questo episodio Emmanuel fa il suo ingresso in una dimensione tra il platonico e il medioevale, impegnandosi con tutte le sue forze in un tentativo di risurrezione dalla materialità in cui è precipitato, travolgendo con sé anche Antonia. 
Di qui in avanti ogni suo sforzo sarà rivolto a trovare una dimensione spirituale nella quale il suo rapporto con la donna possa raggiungere un difficile equilibrio in grado di resistere al tempo. 
Gli interpreti sono Paolo Malgioglio e Elisa Gandolfi. 
Nel corso dell'episodio potete ascoltare un brano e una cover (eseguita da Yvonne Jeucken) di "Phantasmagoria in Two" di Tim Buckley e  versioni in stile medioevale di "Numb" dei Linkin Park. 
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With this episode Emmanuel enters a  dimension between the Platonic and the medieval, committing himself with all his strength in an attempt at resurrection from the materiality into which he has fallen, also overwhelming Antonia with him.
From now on, his every effort will be aimed at finding a spiritual dimension in which his relationship with the woman can reach a difficult balance capable of withstanding time.
The interpreters are Paolo Malgioglio and Elisa Gandolfi.
Throughout the episode you can hear a song and a cover (performed by Yvonne Jeucken) of Tim Buckley's "Phantasmagoria in Two" and medieval-style versions of Linkin Park's "Numb". 

Il mattino seguente mi risvegliai con una chiara consapevolezza: stavo distruggendo Antonia. Ero diventato per lei una grave dipendenza, le facevo lo stesso effetto che Michelle aveva fatto su di me. Dovevo liberarla di me, ma nello stesso tempo non volevo perderla per nessuna ragione al mondo: ero finito in un terribile cortocircuito, dal quale non sapevo come uscire. 

Era giunto il momento di dimostrare a me stesso, prima che a lei, che il mio Streben non era rivolto alla materia. Di lì in avanti il percorso sarebbe stato tutto in salita: si trattava di dominare i miei impulsi fisici, mettere da parte la gelosia, inevitabile al pensiero che lei avrebbe continuato ad avere rapporti sessuali con mio fratello e forse con Frédéric (il forse dipendeva da lui), agire con la massima determinazione nei suoi confronti per indirizzarla verso un'improbabile emancipazione dalla sua fisicità. Sarebbe stato tutto difficilissimo: e io ce l'avrei fatta. 

In altre parole, era venuto il turno del cavallo bianco.

Verso le tre del pomeriggio ci incontrammo sulla sponda del fiume. Invece di accompagnarla al fienile, come lei si aspettava, le proposi una passeggiata; la presi per mano e camminai per un po' con lei in un'atmosfera fiabesca: ricordo distintamente il colore chiaro e nitido delle giovani foglie dei pioppi e degli aceri su cui luccicavano le perle della pioggia recente, sullo sfondo terso di un blu profondo, mentre piccole nuvole di vapore si alzavano qua e là da un tappeto di erba verdissima. Mi raccontò la sua giornata, le solite cose dell'università; quando fummo stanchi di camminare distesi il mio kay-way sull'erba e mi ci sedetti sopra, la feci sedere sulle mie ginocchia e mi misi a leggere Timore e tremore con il mento appoggiato sulla sua spalla, usando le sue gambe come leggìo. Quel giorno era vestita in modo abbastanza provocante, con la gonna e i tacchi alti: stupita e contrariata dalla mia indifferenza, quasi subito cercò di indurmi in tentazione: la cosa era ampiamente prevista e non mi feci cogliere impreparato. La serrai in un abbraccio che aveva il duplice scopo di rassicurarla e di tenerla ferma. Riuscì comunque a divincolarsi e ad infilarmi una mano sotto la maglietta: dai, smettila, sto studiando, le dissi serio, continuando a leggere. Allora si scostò bruscamente da me e mi disse con tono angosciato non ti piaccio più. Non dire stupidaggini, le risposi, e la abbracciai più stretta. Fingendo di equivocare, lei cercò nuovamente di approfittare della situazione e si infilò la mia mano sinistra sotto la gonna; ebbi l'impressione che stesse per avere un orgasmo al mio solo contatto. Preoccupato dall'evidente degenerazione del suo stato psichico, la strinsi fino quasi a farle male e la minacciai severamente: se continui così non sarò neppure ammesso all'esame, e sarà tutta colpa tua: lo sai che devo recuperare due materie. Sapevo come ricattarla: si calmò subito, disse hai ragione e si immerse nella preparazione delle sue dispense universitarie, senza più cercare di indurmi in tentazione.

La storia si ripeté per qualche giorno, mettendomi in seria difficoltà: alla fine ero solo un comune diciottenne che teneva fra le braccia la donna amata, resistere non era facile per me e nemmeno per il mio cavallo bianco, evidentemente alle prime armi come asceta. Antonia, profondamente umiliata, smise di chiedermi quello che non ero più intenzionato a concederle, ma la cosa suscitò in lei una terribile inquietudine: temeva che il nostro rapporto fosse al capolinea, che io mi fossi già stancato di lei; non si truccava neanche più, si vestiva in modo casuale e dimesso, convinta com'era di non essere più attraente ai miei occhi. Povera Antonia, non potevo certo stancarmi della donna che amavo, ma tutte le apparenze giocavano a mio sfavore. Ad un certo punto, non sopportando di vederla così depressa, fui costretto a spiegarle per filo e per segno come stavano le cose.

Le dissi la verità, e cioè che la mia attrazione per lei era rimasta invariata, ma che quella situazione si era trasformata in una dipendenza per entrambi e non era affatto quello di cui avevo bisogno per guarire. Volevo che il nostro rapporto fosse frutto di una scelta, non di una necessità. Dovevamo dimostrare a noi stessi che eravamo in grado di stare insieme anche senza stordirci con il sesso, che alla fine era un altro tipo di droga: era troppo facile, troppo comodo essere sempre su di giri, ma avremmo saputo sopportare la normalità? Non avevo alcuna intenzione di ripetere con lei l'esperienza vissuta con Gerti: in qualche modo stavo rivivendo la stessa situazione sostituendo l'eroina con il sesso, e questo degradava la sua immagine ai miei occhi. Io non la volevo come amante: provavo per lei qualcosa di molto più profondo. Non avevo idea di quale potesse essere lo sbocco di quel sentimento, ma di una cosa ero certo: non avrei fatto di lei la mia compagna di letto. Per un po', quindi, avremmo fatto a meno del sesso, a maggior ragione perché lei aveva avuto quella strana emorragia di cui ancora non si conoscevano le cause. 

Antonia mi ascoltò attentamente e alla fine, rincuorata dalle mie parole, riconobbe che avevo ragione. Pattuimmo un periodo di castità di tre mesi, in modo da superare il mese di luglio e con esso l'esame di maturità: in seguito si sarebbe deciso il da farsi. Lei prese molto sul serio l'impegno, confortata dal fatto che io facessi progetti a lungo termine per noi due; smise di provocarmi e cominciò a vestirsi con abiti castigati e scarpe col tacco basso da collegiale. 

Già, le scarpe: a volte le donne non si rendono conto di cosa risulti eccitante per un uomo. 

Per colpa di quelle scarpine da bambina con il cinturino, che mi avevano smosso qualcosa dentro, una volta commisi l'errore di lasciarmi andare: di colpo la abbattei nel fieno con una zampata, senza dire una parola; lei mi ricordò il nostro patto, ma poi, gratificata dal mio sguardo di giovane lupo famelico, si lasciò divorare. Facemmo l'amore come ai vecchi tempi, in modo caotico e confusionario. Fu un momento bellissimo, ma con quella leggerezza rischiai di rovinare tutto. Inoltre ci fu di nuovo un'emorragia: sebbene il ginecologo non avesse trovato niente di allarmante, io ero preoccupato. Non ripetei più l'errore. 

Lei, dal canto suo, cominciò a sforzarsi di non guardarmi: la mia vista le suscitava desideri non più appagabili. Pensai che avrei dovuto cambiare radicalmente look, come a suo tempo mi aveva suggerito Antonio, perché la mia apparenza da angelo maledetto, per dirla con le parole di mio fratello, sembrava fatta apposta per risvegliare torbide fantasie sessuali, il che era perfetto per una come Gerti, ma assolutamente inadatto al mio rapporto con Antonia. Per minimizzare l'inconveniente avevo preso l'abitudine di sedermi alle sue spalle o al suo fianco, mai di fronte a lei. Avevo cambiato anche il genere della musica che ascoltavo quando eravamo insieme: cercavo di evitare brani eccitanti e di proporle qualcosa che potesse rilassarla senza essere banale e noioso. A volte puntavo sulla musica classica. 

Una sera, ricordo, mentre ascoltavamo musica, io esitavo alla ricerca delle parole giuste per farle una domanda. Avevo detto a mia madre che non sarei tornato per cena ed avevamo portato con noi l'occorrente per un abbondante spuntino, che consumammo verso le sei. Era una serata tiepida, si stava bene all'aria aperta. Mentre dondolavamo le gambe nel vuoto seduti sull'orlo del fienile e la distesa dell’erba sotto di noi si accendeva dello scintillio intermittente delle prime lucciole, misi su una canzone di parecchi anni fa, un brano che amavo e che mi sembrava particolarmente adatto a quella fase della nostra vita. Di solito lei ascoltava senza fare domande, ma quella volta mi chiese:

- Che voce meravigliosa: chi è che canta?

- Tim Buckley. 

- Strano: ricordavo una voce diversa.

- Lui non aveva una voce: ne aveva mille.

- Come s'intitola la canzone?

- Phantasmagoria In Two.

- È bellissima.

Apprezzai quel commento semplice e senza pretese critiche: come ho detto, il bello non va vivisezionato, va sentito e amato. 

- Me la canti accompagnandoti con la chitarra? Per favore - mi chiese lei. Scoppiai a ridere:

- Io non ho un'estensione vocale di cinque ottave e mezzo come ce l'aveva lui. Per un maschio normale è impossibile cantare in quella tonalità, ci vorrebbe una voce femminile. Dovresti cantarla tu, piuttosto.

- Peccato che io non sappia cantare.

All'improvviso mi venne un dubbio.

- Sei intonata? - le chiesi. Mi resi conto che non ne avevo la più pallida idea: non l'avevo mai sentita cantare.

- Sì, sono abbastanza intonata. A scuola mi facevano cantare nel coro.

- Allora prova a cantarla tu: io ti accompagno con la chitarra.

- Ma non so le parole, e poi il mio inglese è appena passabile.

- Le parole ci sono, eccole qua - le dissi, porgendole la custodia del cd.

Cercò debolmente di opporsi.

- No, dai: ho paura di rovinare la canzone.

Le sorrisi.

- Non ci sente nessuno, al massimo scandalizziamo qualche pipistrello.

Si lasciò convincere. Facemmo qualche prova, una strofa per volta. Anch'io faticavo un po' a trovare gli accordi giusti: oltre tutto dovevo arpeggiarli, una tecnica che non padroneggiavo perfettamente. Quando ci sentimmo entrambi abbastanza sicuri le dissi:

- Pronta?

- Sì - rispose lei.

Attaccai la ballata e lei cominciò a cantare con la sua voce esile e intonata.

If a fiddler played you a song, my love

and if I gave you a wheel

would you spin for my heart and loneliness

would you spin for my love...

Ho ancora nelle orecchie l'adorabile garbo un po' scolastico con cui eseguiva il ritornello:

Everywhere there’s rain my love

everywhere there’s fear.

Fu una delle esperienze più magiche della mia vita: compresi che lei voleva entrare nel mio mondo. Quella donna mi amava nell'unico modo possibile, l'unico giusto per me.

Alla fine la abbracciai di slancio.

- Brava, amore - le dissi commosso. 

Mi ripromisi di ripetere più spesso l'esperimento: non sapevo che, per una serie di disgraziate circostanze, quella sarebbe stata la prima e l'ultima volta.

Lei non rispose niente. Imbarazzata e felice, nascose il viso sul mio petto e rimanemmo per qualche minuto così, in silenzio.

Dopo un po', accarezzandole i capelli, trovai il coraggio di formulare la domanda che avevo in serbo fin dall'inizio:

- Come va con mio fratello?

- Come al solito, perché?

- Niente, così. Non vorrei che i nostri sacrifici fossero inutili, visto che continui ad avere rapporti fisici con lui.

La prese alla lontana:

- Vedi Emmanuel, ci sono cose che non è facile spiegare. 

- Lo so, ma provaci.

- Io voglio bene a tuo fratello. Non è un problema il sesso con lui, posso farlo o non farlo, non mi cambia nulla.

- In che senso non ti cambia nulla?

- Nel senso che Michele è equilibrato nel sesso come in tutto il resto, e questo non genera dipendenza; non in me, quanto meno.

- Cos'è che genera dipendenza in te? - chiesi, pensando di conoscere fin troppo bene la risposta. Ma lei mi sorprese:

- Due eccessi opposti: la spiritualità e la carnalità. Tuo fratello non possiede né l'una né l'altra.

- E io?

- Tu cosa?

- Io come sono? Troppo spirituale o troppo carnale?

Sorrise.

- Cambiamo argomento, vuoi?

- Nemmeno per sogno.

Arrossì un po' e voltò il viso in modo che non potessi vederle gli occhi.

- Ti offendi se ti dico che attraverso il sesso tu non trasmetti nulla di fisico?

- No, non mi offendo. Se mai mi stupisco: mi pare che provi sensazioni fisiche piuttosto intense quando fai l'amore con me, o sbaglio?

- Non sbagli.

- E allora?

- Non c'è discontinuità tra il piano fisico e quello spirituale, almeno per me. Se conquisti la mia anima hai vinto la partita.

Lo sapevo già, perché per me era la stessa cosa, ma volevo sentirmelo dire da lei. Aggiunse con un certo imbarazzo:

- Questo non vuol dire che tu non sia un bravo amante, intendiamoci: sei bravissimo, ma non è la tecnica che conta; un altro altrettanto bravo non mi farebbe lo stesso effetto, anzi, probabilmente non me ne farebbe nessuno. Il fatto è che... 

S'interruppe.

- Non so come dirtelo.

- Provaci - le ripetei.

Chinò la testa sulle ginocchia piegate, circondandosi le gambe con le braccia: una tipica posizione di autodifesa.

- Non è perché sei bravo che funziona così bene, è perché tu sei tu. Mi dà un'emozione indescrivibile sentirti dentro di me.

Non dissi niente. Lei, sempre restando in quella posizione, proseguì:

- Sento tutto quello che senti tu, mi trasmetti tutte le tue sensazioni: so sempre esattamente cosa provi e non posso fare a meno di provarlo anch'io. È una cosa che mi succede solo con te.

Mi ritenni pienamente soddisfatto della risposta: quella cosa che aveva appena descritto si chiama amore; altri, più prosaicamente, la chiamerebbero chimica, affinità elettiva. In ogni caso i nomi non sono importanti: so solo che è una cosa che succede solo con la persona che si ama.

La prossima domanda era più difficile, ma riuscii a formularla con sufficiente disinvoltura:

- E Frédéric?

- Freddy è l'esatto opposto: la sua spiritualità la tiene per sé, non la concede a una femmina.

Risposta laconica, com'era prevedibile. Non insistetti oltre su quel tasto dolente, anche perché quel diminutivo significava che probabilmente i rapporti fra di loro non si erano mai del tutto interrotti. Mi imposi di non cedere alla tentazione di indagare più a fondo: per nessuna ragione al mondo avrei rischiato di compromettere di nuovo il nostro rapporto. Si trattava di sopportare, pazientare, attendere il momento in cui la situazione si sarebbe stabilizzata. Dovevo imparare a temporeggiare. Stavo studiando un modo elegante per esprimerle il mio disappunto senza lasciar trapelare la mia gelosia, quando lei all'improvviso, senza motivo apparente, sollevò la testa e disse:

- Mi piacerebbe avere un bambino.

Queste parole non solo mi spiazzarono completamente, ma mi urtarono con la violenza di un pugno. Non capivo perché: forse mi offendeva la genericità del suo desiderio, forse semplicemente mancava un aggettivo possessivo.

- Perché?

Si strinse nelle spalle:

- Non c'è un perché: è naturale per una donna desiderare un figlio.

Continuavo ad avvertire un confuso e fortissimo disagio di cui non riuscivo a decifrare il senso. Lo espressi come potevo: mi vennero fuori parole di aspro rimprovero.

- Antonia, tu non hai mai desiderato essere naturale. Dicevi che volevi diventare qualcuno, fare carriera, dimostrare che vali qualcosa. Ti sei dimenticata i tuoi discorsi sulla Cappella Sistina e i pannolini sporchi? Mi prendevi in giro quando dicevi quelle cose?

- Io non ti ho mai preso in giro, Emmanuel. Il fatto è che non sto più combinando niente di buono: credo che abbandonerò la carriera universitaria.

Quelle parole mi diedero una fortissima stretta al cuore: com'era possibile che la mia professoressa volesse abbandonare l'universo che amava e che aveva fatto amare anche a me? Mi pareva assurdo, grottesco, innaturale.

Poi cominciai ad intuire, con una stretta al cuore ancor più dolorosa, che la colpa era solo mia: mi resi conto di quante cose fossero cambiate intorno a me mentre io ero tutto impegnato a spappolarmi il cervello con Gerti. Antonia doveva avere vissuto per mesi una situazione di tensione e di angoscia che l'aveva praticamente alienata da se stessa.

Cercai di provocarla, nella speranza di suscitare in lei una reazione di orgoglio:

- Cos'è, hai capito che preferisci fare la mantenuta di un marito ricco?

- Non essere ingiusto, dai. È che nel mio campo non si possono fare le cose a metà, senza passione. Aristofane non me lo perdonerebbe. 

- Lascia in pace Aristofane: ti perdonerebbe senz'altro, se solo la smettessi di sparare cazzate. 

Sorrise scuotendo la testa e non rispose. Fingere superficialità non era la tattica giusta. Smisi di provocarla e le chiesi accorato: 

- Antonia, sul serio, ma perché?

Lei abbassò lo sguardo:

- Non prendertela con me: sei stato tu a cambiarmi.

Purtroppo lo sapevo. Simulai comunque stupore:

- Io? E in che modo?

Sorridendo in un modo assurdo, lei mi rispose:

- Io sono stata felice solo con te.

- E questo cosa c'entra col tuo cambiamento? 

- C'entra.

- E perché, poi, parli al passato? Ora non sei più felice?

- Perché devo abituarmi a pensarti al passato. Ho riflettuto molto in queste ultime settimane, e adesso finalmente ho capito.

Le sue parole andavano a toccare qualche delicatissimo ganglio nervoso, qualche nervo scoperto del mio essere. Stavo per tapparle la bocca con una mano per farla tacere; invece le chiesi:

- Capito cosa?

- Che una donna e un uomo hanno ben poco da dirsi. Il rapporto perfetto è quello fra una donna e un bambino. Io sono stata me stessa soltanto con te, Emmanuel: adoravo giocare con te, perché lo sai che le nostre giornate al fiume erano un gioco. Facevamo il gioco della professoressa con l'alunno, tutto qui. 

- Non era un gioco: io studiavo sul serio.

- Ma sì che era un gioco, lo sai. Anche studiare era un gioco, un bellissimo gioco. Adoravo guardarti crescere, adoravo la tua ingenuità, adoravo assecondare tutti i tuoi desideri. Anche il sesso è stato soprattutto un modo per conoscerti meglio, per vederti crescere. Tutti i giorni ringraziavo Dio di esistere. 

Sorrise e aggiunse:

- Un Dio pagano, suppongo. 

Non risposi nulla. Riprese:

- Ma ormai tu sei quasi un uomo. Il bambino che conoscevo appartiene al passato. Per questo dicevo che mi piacerebbe avere un bambino: mi manca moltissimo quel tipo di rapporto. Vorrei tanto poterlo riavere, è l'unica cosa in grado di rendermi felice. Il lavoro mi ha dato qualche soddisfazione, ma non mi ha mai resa felice.

Intuivo in quell'affermazione una verità tremenda, un vicolo cieco che vanificava tutti i miei sforzi. Lì per lì mi venne in mente soltanto un’obiezione banale:

- Non ero già più un bambino quando mi hai conosciuto.

- Sì che lo eri, - sorrise - e un po’ lo sei ancora.

Le parlai con la voce della disperazione:

- Allora credici fino in fondo, Antonia. Credici, cazzo!

- I bambini crescono, Emmanuel: devo lasciarti andare.

I suoi occhi erano lucidi di lacrime. Mi sentii invadere all’improvviso da un coraggio folle ed esaltato: se la soluzione non esisteva l'avrei inventata, l'avrei plasmata dal nulla. Il panico dell'artista di fronte alla pagina bianca è la sua vera forza. 

- Non preoccuparti, - le dissi con tono allegro - troverò un rimedio. Non crescerò affatto, anzi guarda, sto già rimpicciolendo, vedi? Mi restringo a vista d'occhio.

Riuscii a farla ridere: questo mi fece sentire un po' meglio.

- A te non piacerebbe avere un figlio? - mi chiese.

- No.

- Perché?

- Non lo so, Antonia. Non mi piacerebbe e basta.

- Sempre per via della sovrappopolazione?

Non mi era facile spiegare quello che io stesso non avevo ancora capito.

- Sì, la sovrappopolazione è un problema enorme, - le dissi - ma non credo che sia per questo. Anche se non ci fosse la penserei allo stesso modo.

M'interruppi, cercando di dare una formulazione razionale alle mie sensazioni. Poi finalmente dissi:

- Il fatto è che in genere le persone, quando hanno dei figli, cambiano in peggio.

- Che intendi dire?

- Che vivere in prima persona non è facile, Antonia: è più comodo delegare questa responsabilità a un figlio. Quando uno ha un figlio si sente come se avesse raggiunto uno scopo: in pratica sposta il problema sul figlio e rinuncia a considerare se stesso come scopo. Ma se tutti facessero così si creerebbe un loop insensato, non credi? Ciascuno cercherebbe lo scopo della sua esistenza in qualcun altro, che a sua volta lo cercherebbe in qualcun altro e così via, e alla fine nessuno avrebbe uno scopo nella vita.

Fece segno di sì con la testa, come se trovasse abbastanza sensato il mio ragionamento. Ripresi:

- È quello che stai facendo tu, Antonia: stai rinunciando a te stessa e ai tuoi scopi e li proietti su un figlio. Immagina se Leonardo avesse deciso di fare il padre di famiglia invece di dipingere il Cenacolo.

- Io non sono Leonardo, - sorrise lei - e poi questo ragionamento vale anche per Hitler e Vlad l'impalatore.

- A livello concettuale è la stessa cosa. I grandi della storia hanno fatto scelte discutibili, ma le hanno fatte: non hanno delegato la loro vita a nessuno. Non eri tu quella che diceva che la storia è maschio?

- Sì, ero io.

- Ti sei persa, Antonia, hai rinunciato alla parte più vera di te: e il fatto che tu dica che è colpa mia mi distrugge.

- Non ho mai parlato di colpa. E non era la parte più vera di me.

- Sì che lo era, Antonia: qualsiasi donna è capace di fare un figlio, ma nessuna si commuove per la metrica di Aristofane.

- Comunque sia, non è colpa tua.

- Invece sì. Sono un imbecille, ho fatto tutto il possibile per distrarti da te stessa, prima con le mie stronzate narcisistiche e poi con i miei trip da tossico. E tu sei diventata una sorta di mia appendice: vivi appesa alla mia bipolarità, su e giù sulle montagne russe, e sei sempre troppo spaventata per pensare a te stessa. 

Conclusi sconsolato:

- Il fatto è che ti volevo tutta per me, Antonia. E non dirmi che non ne avevo il diritto, perché lo so.

Mi tremavano un po' le labbra. Stavo per dirle ti amo, ma in quel momento sarebbe stato patetico. Comunque se potessi tornare indietro glielo direi. 

- Non c'è nulla di irrimediabile in questo, Emmanuel: posso ancora riprendere il mio lavoro e i miei studi, se voglio. 

- Lo farai? 

- Lo farò, prima o poi.

- Scriverai ancora qualche articolo assurdo e incomprensibile?

- Sì, se ti fa piacere. 

- Ma non devi farlo per far piacere a me, - insistei con disappunto - devi farlo per te stessa.

- D'accordo, lo farò per me stessa. Ora però smetti di tormentarti: non ho nulla da perdonarti, non sai quanto mi renda felice vederti guarito. Questa è la sola cosa importante, il resto si aggiusterà.

Mi accarezzò una mano. Cercai di dominare la commozione che mi dava quella carezza materna, che conteneva tutto il suo immeritato perdono. Poi, tornato padrone di me, le dissi:

- Il fatto è che un figlio per la gente è l'illusione dell’immortalità, ma se ci pensi bene è vero il contrario: mettere al mondo un figlio significa costringerlo a condividere con noi la mortalità. Non puoi non capirlo. Hai davvero tutto questo desiderio di dare in pasto altra carne umana al cancro e alla guerra?

Non rispose. La luna appena sorta, gialla e perfettamente rotonda, illuminava quasi a giorno l'azzurro. 

- Non c’è solo dolore nella vita, - disse infine - c’è anche questa luna.

Sorrisi con un po' di amarezza:

- Questa luna è solo un fondale dipinto, amore.

- Dipinto bene, però.

- Deve fare le cose perbene se vuol farci credere di essere Dio.

- Perché, chi è invece?

- Non ne ho idea. Forse un grande matematico. O un meraviglioso artista, con uno straordinario senso estetico e nessun senso etico. O forse un geniale burlone.

La situazione mi apparve all'improvviso per quella che era: un grottesco capovolgimento di ruoli, in cui l'insegnante non riconosceva il Timeo e si aspettava risposte metafisiche dall'allievo. Peccato che l'allievo brancolasse nel buio quanto lei: le avrei dato volentieri tutte le risposte che desiderava, se le avessi sapute, perché l'unica cosa che volevo in quel momento era di farla stare bene.

Mi assalì di colpo un dubbio: e se per farla stare bene avessi dovuto anche...

All'improvviso un verso stridulo alle nostre spalle ci fece voltare la testa: un grosso uccello dalla coda lunghissima solcava il crepuscolo sopra di noi.

- Guarda! - esclamò lei indicandolo. Lo riconobbi subito:

- È un pavone: mio nonno ne teneva uno in giardino.

- Non credevo che i pavoni sapessero volare.

- Sì, sanno volare. Più che altro planano, come gli alianti.

- È bellissimo.

- Stupendo, ma ha una voce orribile.

L'animale ci sorvolò con le ali spalancate e immobili, emettendo più volte il suo acuto e sgraziato lamento, e scomparve dietro la collina, in un punto imprecisato del cielo. Rimanemmo a guardarlo in silenzio.

- Che spettacolo, eh? - dissi.

- Meraviglioso.

Tacque per un po', raggomitolandosi di nuovo con le ginocchia fra le braccia. Poi riprese:

- Forse siamo finti anche noi; forse siamo i protagonisti di una commedia scritta dal qualcun altro.

Ero inginocchiato alle sue spalle: la circondai con le braccia appoggiandole il mento sui capelli.

- Non credo, amore mio. Forse una parte di noi è vera, ma non possiamo vederla finché continuiamo ad andare avanti così. Dobbiamo sforzarci di andare nella direzione opposta.

- Quale direzione?

Presi la sua testa fra le mani e le ruotai il collo come quello di una bambola, costringendola a guardare al di sopra della collina, in alto, verso un punto imprecisato del cielo.

 

Everywhere there’s rain my love

everywhere there’s fear...